Terence Stamp: il paziente inglese
Traducción de Annamaria Martinolli
La presente intervista è stata pubblicata per la prima volta nel maggio 2013 sul mensile Première. Si ringrazia Gérard Delorme per l’autorizzazione alla traduzione, a cura di Annamaria Martinolli.
In Una canzone per Marion, di Paul Andrew Williams, Terence Stamp interpreta un marito che accetta di cantare in un coro per amore della moglie. È l’occasione per passare in rassegna, in sua compagnia, un repertorio detonante in cui Fellini, Pasolini e Soderbergh convivono con… Superman.
Gérard Delorme (GD): Fin dal vostro primo film, Billy Budd (1962) di Peter Ustinov, siete riuscito a conquistare un ruolo importante e a ottenere una nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista. Si è trattato di un grande colpo di fortuna, oppure avevate lavorato sodo per conseguire quel ruolo?
Terence Stamp (TS): È stato tutto così improbabile… Per buona parte si è trattato di fortuna, ma anche il destino ci ha messo del suo. Quando mi hanno chiesto di incontrare Peter Ustinov, avevo recitato solo a teatro dopo aver frequentato dei corsi di formazione della durata di appena un anno. Come se non bastasse, all’epoca era molto difficile, per un regista, ingaggiare un attore completamente sconosciuto.
GD: L’esperienza con Peter Ustinov che cosa vi ha insegnato?
TS: Ustinov era una persona esemplare. Si comportava come un principe, ma dava l’impressione di riuscire sempre a trovare del tempo da dedicare a tutti. Riteneva che avessimo realizzato qualcosa di speciale e, durante l’ultimo giorno di riprese, mi ha detto questa frase che mi ha cambiato la vita: “Se fai le cose per bene, altre, migliori di queste, ti verranno incontro”. Guardando le cose in prospettiva, le sue parole hanno assunto un significato diverso; nello specifico, quello che lui intendeva con «fare le cose per bene» per me è diventato «fare del mio meglio».
GD: Come è stato lavorare al fianco di Laurence Olivier ne L’anno crudele (1962) di Peter Glenville?
TS: Ero notevolmente impressionato perché lui era una leggenda, ma non faceva che ignorarmi. Così me ne sono fregato della sua faccia e, a quel punto, siamo andati d’accordissimo. Mi ha consigliato di non smettere mai di lavorare sulla voce: “Il tuo aspetto, con gli anni, si andrà deteriorando, ma la voce diventerà più potente”. Da allora, non passa giorno che io non segua il suo consiglio. Ci ho guadagnato in profondità, e lo devo interamente a lui.
GD: A differenza di Laurence Olivier avete preferito il cinema al teatro. Perché?
TS: Sostanzialmente per ragioni di spontaneità. Le mie migliori interpretazioni sono state dirette da cineasti che, come me, sono dei seguaci del “buona la prima”. La prima ripresa è fondamentale in termini di energia e di originalità. È in quell’occasione che un attore dà il meglio di sé. Quando si comincia a riflettere sul modo di interpretare la scena diversamente si è per forza di cose meno incisivi.
GD: Come vi siete trovato sul set di Toby Dammit, uno degli episodi di Tre passi nel delirio (1968) diretto da Federico Fellini?
TS: Per la mia vita è stata una vera svolta. Non dimenticherò mai il primo giorno di riprese, fuori dall’aeroporto di Fiumicino. Ero truccato e vestito in modo molto bizzarro. Qualcuno è venuto a prendermi alla roulotte e mi ha portato, attraverso una moltitudine di luci, fino a un punto segnato. Ho subito intuito che stavamo per girare, così ho fatto un cenno a Fellini per fargli capire che volevo parlargli. Mi ha guardato come fossi un burattino che aveva appena preso vita, e io gli ho detto: “Sono un attore inglese al suo primo giorno sul set di un film di Fellini. Cosa devo fare?”. Allora lui si è chinato verso di me e mi ha risposto (con accento italiano): “Dopo l’ultima replica di Macbeth all’Old Vic Theatre, ti sei recato a una festa che si è rivelata un’orgia. Hai fumato hashish, hai sniffato cocaina, hai bevuto molto whisky e hai scopato a più non posso. Ti sei scopato una bionda tettona e una specie di watusso si è scopato te. La cosa è andata avanti fino all’alba, quando qualcuno ti ha accompagnato all’aeroporto dopo averti somministrato una dose di LSD. Questo è il punto di partenza!”. Non gli ho mai più chiesto che cosa dovevo fare.
GD: È stato il caso, in seguito, a portarvi a recitare in Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini?
TS: Silvana Mangano mi aveva notato per strada e mi aveva detto che, secondo lei, ero adatto per il film di Pier Paolo, che non conoscevo. Avevo sempre avuto un debole per Silvana, dai tempi di Riso amaro. Pasolini è quindi venuto a Londra assieme a Franco Rossellini, uno dei suoi produttori, e mi ha raccontato che Teorema narrava la storia di una famiglia borghese di Milano. A un certo punto, a casa di questa famiglia, arriva un ospite, va a letto con tutti e poi riparte. L’idea mi sembrava buona. Mi sono recato a Roma per le riprese, e Pasolini non mi ha mai più rivolto la parola. Non riuscivo a capirne il motivo, poi, mi sono accorto che quando non ero impegnato a girare mi riprendeva di nascosto. Cercava di cogliere ciò che ero non ciò che facevo. Ho scoperto un approccio diverso, che consisteva nell’essere totalmente presente.
GD: Alla fine degli anni Sessanta siete scomparso. Cos’è successo?
TS: Non mi proponevano più nulla, così ho viaggiato molto. Pensavo di fare il giro del mondo, ma quando sono atterrato a Bombay ne sono rimasto affascinato. Ho iniziato a studiare in un Ashram frequentato da donne straordinarie venute da ogni parte del mondo a cercare l’illuminazione spirituale. Mi ci sono trovato bene, e gli anni sono passati. Ogni volta che imparavo qualcosa di nuovo sulla respirazione, la danza, le arti marziali o lo yoga, mi dicevo che sarebbe stato bello utilizzarlo al mio rientro sul set. È accaduto nel 1977, quando mi hanno offerto il ruolo del generale Zod in Superman. A quel punto, non mi ritenevo più un leading man ma un attore caratterista. È stato liberatorio. Non ero più angosciato all’idea di invecchiare, o al pensiero che il mio aspetto o il mio fisico cambiassero. Ero aperto a tutto.
GD: Nel 1987, Michael Cimino vi ha scelto per interpretare Il Siciliano. Che ricordo avete di lui?
TS: Quando è venuto a Londra, altri attori mi hanno riferito che aveva convocato praticamente tutti tranne me. Mentre si dirigeva verso l’aeroporto, Cimino chiese a Michael Stevenson, il suo primo assistente, se davvero aveva provinato tutti. Stevenson gli rispose che mancava un certo Terence Stamp, e siccome sapeva dove trovarmi, hanno fatto dietrofront per raggiungermi al mio bar preferito, che si trova giusto di fronte a casa mia in zona Picadilly. Cimino è arrivato assieme alla sua produttrice, ci siamo subito intesi e ha deciso di affidarmi il ruolo del principe, così mi sono ritrovato in Sicilia. La cosa incredibile è che mi ha fatto alloggiare nei migliori alberghi, mi ha trattato come un principe vero e mi ha presentato all’aristocrazia siciliana. Gli attori che interpretavano i gangster sono entrati in contatto con la mafia vera e sono stati alloggiati in delle bettole. Cimino istruiva i suoi attori in questo modo. E si è rivelata un’esperienza straordinaria.
GD: Il ruolo che avete interpretato in Priscilla, la regina del deserto (1994), di Stephan Elliott, lo sentivate come qualcosa di vicino alla vostra personalità, oppure no?
TS: Non ho mai interpretato un ruolo più fuori dalle mie corde. Ancora adesso non so come io sia riuscito a fare tanto: ero terrorizzato. Appena aprivo il copione, trovavo mille scuse per rimandarne la lettura. Così è andata a finire che non l’ho letto mai! La mia agente, che è una donna molto perspicace, mi ha detto che i miei timori erano sproporzionati e che dovevo accettare. Poi, si è rivolta a me con queste magnifiche parole: “Non farlo per la tua carriera, fallo per i progressi che un ruolo simile ti permetterà di compiere”. Siccome ho sempre nutrito un profondo rispetto nei suoi confronti, l’ho ascoltata. Ho affrontato la mia paura e mi sono chiesto come sarebbe stato essere una donna nel corpo di un uomo, esperienza che non ha nulla a che vedere con l’essere gay. Credo che questo abbia dato un certo spessore al personaggio, in un contesto incredibilmente kitsch e bizzarro.
GD: Quando Steven Soderbergh vi ha chiesto di recitare ne L’inglese (1999), vi consideravate l’inglese per eccellenza?
TS: Sì, ma la proposta è arrivata dopo una serie di circostanze insolite. Ero in vacanza alle Hawaii quando ho ricevuto un messaggio che mi diceva di richiamare Soderbergh. Pensavo volesse propormi una particina ma, al telefono, mi ha chiesto se mi avrebbe dato fastidio se inseriva nel film alcuni fotogrammi di Poor Cow (1967) di Ken Loach. Gli ho risposto che per me non c’era alcun problema e lui mi ha detto: “Te lo chiedo perché conosco pochi leading man che accetterebbero di recitare accanto a se stessi ma con trent’anni di più”. Così ho capito che mi stava offrendo il ruolo principale… Ne ero entusiasta, e dopo averlo incontrato mi sono sentito ancora più lusingato. Siccome Soderbergh è sia regista che direttore della fotografia, tutte le riprese, per me, sono state come un “buona la prima”.
GD: Cosa ne pensate del suo ritiro anticipato dall’attività cinematografica?
TS: Ne sono abbastanza indispettito, perché una sera mi aveva chiamato per propormi il sequel de L’inglese, assieme a Julie Christie. Siccome non si trovava nessuno disposto a scriverne il copione, me ne sono assunto la responsabilità e lui si è dimostrato molto soddisfatto del risultato. Mi aveva persino chiesto di dirigere io stesso il film, mentre lui si sarebbe occupato della fotografia. A quanto pare ha cambiato idea. Ora non sono più molto sicuro di volerlo fare senza di lui.
GD: Il fatto di dover cantare in Una canzone per Marion (2012) di Paul Andrew Williams vi ha intimidito?
TS: Sì e no. All’inizio ero abbastanza preoccupato, ma dovevo prendermi una rivincita per il rimpianto provato quando ho rifiutato Camelot (1967), di Joshua Logan, per timore di non essere all’altezza di una commedia musicale. Quando ho saputo che Vanessa Redgrave, che in Camelot interpretava Ginevra, era stata ingaggiata per il ruolo di Marion, mentre io dovevo cantare e interpretare tale Arthur, ho pensato che il destino mi stava dando una seconda possibilità. Ho sentito che dovevo accettare, e così tutte le mie paure sono scomparse. La scena in cui canto è stata girata l’ultimo giorno. Non avevamo la possibilità di fare più di una ripresa e per me si è rivelato perfetto. L’esperienza è stata talmente soddisfacente che ho pensato di farne il mio ultimo film. Finché non mi hanno proposto una commedia a Toronto, The Art of the Steal (attualmente in post-produzione). La pensione può attendere.