La parola ai giurati di Sidney Lumet
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente saggio breve è stato pubblicato, nell’estate 2017, sul sito della Library of Congress di Washington nell’ambito del progetto di tutela del patrimonio cinematografico statunitense. L’autrice è Joanna E. Rapf. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
La parola ai giurati (1957), di Sidney Lumet, è diventato un classico non solo perché tale viene considerato dagli studenti di cinematografia, ma perché, nelle scuole superiori, viene spesso visto come un’opera avvincente utile a insegnare la responsabilità civica, la giustizia sociale e l’importanza di lottare per ciò che è giusto anche contro una maggioranza schiacciante.
Fu il primo lungometraggio di Sidney Lumet dopo sette anni di eccellente lavoro in televisione e, nel corso di una carriera durata quarant’anni, il regista avrebbe continuato a riprendere queste tematiche. Reginald Rose scrisse la pièce originale per la serie televisiva Studio One della CBS, e l’episodio fu trasmesso il 20 settembre 1954. Egli stesso affermò di essersi basato, almeno in parte, sulla sua personale esperienza da giurato (un mese prima della composizione del testo fu chiamato dal Tribunale di New York a pronunciarsi su un caso di omicidio ed esclamò: “Dio mio, ci sono otto milioni di abitanti a New York e vengono proprio a cercare me!”. N.d.T.); tuttavia, l’opera rispecchia anche il periodo in cui fu realizzata, quello del cosiddetto maccartismo, quando lottare per i propri diritti costituzionali poteva comportare guai seri. Nel 1995, Reginald Rose ammise che in un certo senso quasi la sua intera produzione degli anni Cinquanta faceva riferimento all’epoca McCarthy[1].
Quando Henry Fonda vide l’episodio della CBS (non era nel cast originale), chiese a Reginald Rose di ricavarne un film. Fonda, nella sua veste di coproduttore assieme a Rose, scelse Sidney Lumet come regista perché “era noto per la sua bravura con gli attori”. Inoltre, “era dotato di notevole spirito organizzativo ed era consapevole di quanto potessero essere complicate le riprese e di quanto fosse importante non perdere tempo”[2].
Lumet aveva acquisito la sua esperienza registica negli anni della tv in diretta e quindi colse al volo l’occasione di ricreare per il cinema la sceneggiatura televisiva. Nell’originale erano presenti solo tre didascalie indicanti i movimenti di macchina e le tecniche di ripresa. Il regista ci vide un’opportunità di narrazione visiva e decise di lasciare che la cinepresa riflettesse i cambiamenti psicologici ed emotivi dei dodici giurati. Gli piaceva concepire la cinepresa stessa come un attore. Il film fu girato in una vera stanza della giuria e questo permise a Lumet di cogliere la sfida di realizzare un film in uno spazio chiuso. Sfida che avrebbe vinto più volte nel corso della sua carriera. Va detto che a supportarlo c’era un maestro del cinema in bianco e nero – con il quale avrebbe collaborato in diversi altri film – Boris Kaufman.
Dal punto di vista visivo, i due volevano trasmettere un senso di prigionia. In una storia in cui dodici uomini devono decidere della vita o della morte di un giovane ispanico, e della sua liberazione o incarcerazione, gli spettatori si trovano dinnanzi dei personaggi che sono essi stessi dei prigionieri. Per ottenere questo effetto, i due crearono quella che Lumet definì “trama di lenti”: “Man mano che il film andava avanti volevo che la stanza diventasse sempre più piccola. Questo significava un passaggio progressivo ad obiettivi sempre più lunghi… Inoltre girai il primo terzo del film al di sopra dell’altezza degli occhi, poi, abbassando la macchina da presa all’altezza degli occhi, girai la seconda parte del film, e infine girai l’ultima parte al di sotto del livello degli occhi” [3]. In questo modo lo spettatore prova la stessa sensazione claustrofobica percepita dai giurati. Poi, per quanto riguarda la ripresa finale del film, relativa a quando i giurati escono dal palazzo di giustizia, Lumet specifica: “Per l’ultima sequenza, ripresi dall’esterno i giurati che uscivano dall’aula con un quadrangolare molto più largo di qualsiasi altro usato per tutto il film. Alzai anche quanto più possibile la macchina da presa rispetto al livello degli occhi. L’intenzione era quella di dare aria, di concedere finalmente il respiro dopo due ore incessanti di clausura”[4].
Il regista, esattamente come Henry Fonda si aspettava, ottenne ottime performance dall’intero cast, incluso lo stesso Fonda che si distinse nel ruolo del giurato n. 8, il tranquillo architetto il cui “ragionevole dubbio” induce gradualmente gli altri a mettere in discussione la loro prima impressione sulla colpevolezza dell’imputato. Il cast comprende, tra gli altri, Martin Balsam nel ruolo dell’insicuro presidente della giuria; Lee J. Cobb in quello del tormentato giurato n. 3, incapace, quasi fino alla fine, di andare oltre i suoi esecrabili pregiudizi; E.G. Marshall nella parte del giurato n. 4, l’occhialuto agente di cambio che inizia a sudare solo quando gli viene un dubbio sulla sua prima impressione; Jack Warden (giurato n. 7) nelle vesti del commerciante che inizialmente dà più importanza alla partita di baseball che al dibattimento ed Ed Begley (giurato n. 10) nei panni dell’irascibile e bigotto garagista. I nomi dei personaggi restano ignoti fino alla fine quando, mentre escono dal palazzo di giustizia, scopriamo che il giurato n. 8 (Henry Fonda) si chiama Davis e il giurato n. 9 Arnold (Joseph Sweeney).
Sidney Lumet chiese agli attori di indossare i vestiti che portavano ogni giorno. Durante le prove, spiegò loro che: “non deve esserci nulla di fittizio; l’intero film siete voi. Non è un pamphlet. Non è una pellicola a favore o contro le giurie. Riguarda… il comportamento umano… Solo voi e il vostro modo di comportarvi nella sua interezza”[5]. Tale comportamento rappresenta la diversità all’interno dell’area metropolitana di New York, dai ricchi alle classi più disagiate. Ogni uomo porta sul tavolo della giuria la sua personale esperienza. Un orologiaio immigrato sa bene cosa significa vivere nei quartiere poveri e sa come utilizzare un coltello a scatto (George Voskovec, giurato n. 11); un pubblicitario pensa e parla per luoghi comuni (Robert Webber, giurato n. 12); il giurato n. 9 (Joseph Sweeney), invece, si rende perfettamente conto di cosa si prova a essere anziano e insignificante. È un vero e proprio campionario di umanità (benché non ci siano donne) che dimostra, come sottolineato nella recensione apparsa sul Time il 29 aprile 1957, che: “la legge non è migliore delle persone che la applicano… e le persone che la applicano sono fin troppo umane”.
Anche se non ne vinse alcuno, La parola ai giurati fu candidato a tre Oscar: Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura basata su altro materiale. Vinse l’orso d’oro al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e Henry Fonda, Lee J. Cobb e Sidney Lumet ottennero una nomination ai Golden Globe. Tuttavia, fu proprio il contenuto del film a costituire il suo maggiore, e duraturo, retaggio perché gli permise di parlare a intere generazioni andando oltre le differenze razziali ed economiche. La pellicola riflette la perenne preoccupazione di Sidney Lumet per la giustizia all’interno dell’ordinamento giuridico, per l’importanza della responsabilità morale e la necessità, in un mondo burocratizzato e meccanizzato, di mantenere la propria autenticità personale. Lo stesso Lumet dichiarò che la tematica del film è semplicemente: “Ascolta”.
Episodio La parola ai giurati come trasmesso nel 1954 dalla CBS:
Informazioni aggiuntive
Note: [1] Munyan, Russ, Ed, Readings on Twelve Angry Men, San Diego: Greenhaven Press Inc., 2000, p. 24. [2] Ibidem, p. 53. [3] Lumet, Sidney, Making Movies, New York: Vintage, Books, 1995, p. 81. In Italia è stato pubblicato con il titolo Fare un film, traduzione di Cesare Petrillo, Minimum Fax, Roma 2010. [4] Ibidem, p. 81. [5] Ross, Don, A Dozen Happy Actors Become ‘Twelve Angry Men’, New York Times (July 15, 1956): sec. 4, p. 3. Joanna E. Rapf è professoressa emerita di lingua inglese e di cinematografia e comunicazione presso la University of Oklahoma. Ha pubblicato numerosi saggi su Sidney Lumet e realizzato un volume che raccoglie una serie di interviste con il regista, tra cui una dell’autrice stessa. È autrice di un volume su Buster Keaton (Buster Keaton: A Bio-Bibliography, Greenwood Press, 1995), del libro On the Waterfront: A Cambridge University Press Film Handbook, Ed. Cambridge UP, 2003, ed è coeditrice del The Blackwell Companion to Film Comedy, Wiley-Blackwell, 2013. I suoi articoli e saggi di argomento cinematografico sono apparsi in diverse riviste e libri del settore.