Personaggi a due o tre dimensioni: la disabilità nella letteratura per ragazzi
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Il presente articolo è tratto da Disability Studies Quarterly (DSQ), the first journal in the field of disabilities studies, Winter 2004, Volume 24, No. 1. L’autrice è la Dottoressa Helen A. Aveling. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
L’obiettivo del presente articolo è mettere in discussione come gli autori e i lettori contemporanei reagiscono ai personaggi disabili nella letteratura per ragazzi. La consuetudine di creare i personaggi in base a degli archetipi, attribuendo al cattivo una disabilità o una mente contorta, è una scelta che rifiuto categoricamente. La interpreto come una pratica ancora diffusa di identificazione del personaggio e di ricorso a una scorciatoia da parte dello scrittore. L’altra faccia del modello consuetudinario sono i personaggi santi, troppo buoni per arrivare vivi all’ultimo paragrafo del libro. Questi personaggi sono definiti in base alla bontà percepita in loro o alla condizione fisica, non in base alle reazioni emotive. Naturalmente questo tipo di modello prova emozioni – diabolica cattiveria e angelica bontà – ma i due estremi sono nel complesso gli unici ammessi. La stucchevole gratitudine non è inclusa nell’elenco, ma va di pari passo con la bontà. Avendo letto tanti libri di questo tipo da bambini, non dovremmo sorprenderci se la reazione generale del pubblico alla disabilità è definita in questi termini estremi.
Nei “classici” per ragazzi, Heidi o Piccole donne, le autrici ricorrono alla consuetudine per creare personaggi come Clara Sesseman o Beth March. Generalmente la reazione a questo tipo di personaggi è interpretarli come esseri ai margini della società e questo rafforza lo stereotipo del personaggio passivo, che, grazie alla sua bontà, accetta qualsiasi cosa. In una mia recensione del 2002 del libro di Lois Keith Take Up Thy Bed and Walk, ammettevo il problema che mi crea una simile prospettiva. Questi personaggi possono essere interpretati più positivamente come perni della loro sfera sociale. Il ruolo di paciera di Beth giova a tutte le sorelle, ma non va associato alla sua salute delicata; fa parte della sua personalità. Con il beneficio del senno di poi, possiamo scusare le caricature presenti in questi libri come “appartenenti al loro tempo”, ma possiamo dimostrarci altrettanto generosi con gli scrittori contemporanei che si avvalgono dello stesso modello nei loro libri?
Nel romanzo di Rowena Edlin-White Clo and the Albatross (1996), la sorella maggiore di Clo, Beth, grande sportiva, finisce in sedia a rotelle in seguito a un incidente stradale che le toglie molte capacità. Le reazioni alla dipendenza di Beth sono viste attraverso gli occhi di Clo, e assistiamo quindi all’inevitabile gelosia secondaria determinata dalla prolungata attenzione della famiglia nei confronti di Beth percepita come essere completamente indifeso. Nella prima parte del romanzo, Beth viene dipinta solo in riferimento alla sua perdita di capacità. Questo è come dire che Beth non ha diritto a una personalità più profonda; che essere disabile basta a definirla. Ritrarre un personaggio disabile in questi termini rafforza la negatività relativa al modo consuetudinario di creare personaggi disabili ed è altamente fuorviante. Il presupposto perdura fino alla seconda metà del libro, quando l’enfasi si sposta da Beth-la-storpia-indifesa a Beth-l’attivista-per-l’accessibilità-urbana. In realtà è successo che Clo, e gli adulti responsabili che gravitano attorno alle due sorelle, hanno imparato ad accettare la sedia a rotelle di Beth e ora hanno bisogno di un altro mezzo attraverso il quale descrivere la primogenita. Purtroppo, questa parte del libro è a tutti gli effetti un prodotto dei primi anni Novanta e delle numerose campagne per una migliore accessibilità. Alla fine, Beth è ancora priva di un carattere distintivo, a prescindere dalla sedia a rotelle o dai suoi precedenti successi sportivi. Questo riecheggia il basarsi sulle definizioni fisiche che costituivano il punto fermo della letteratura per ragazzi dell’Ottocento.
Un’altra mancanza di personalità, simile a quella di Beth, l’ho riscontrata nel personaggio di Annie in Al telefono col morto (2001) di Gillian Cross. In questo caso la storia è narrata da due punti di vista; il primo è la capacità narrativa dell’autrice, il secondo sono gli occhi della sorella quindicenne del “morto” che si ritrova ad assistere fisicamente la fidanzata paraplegica di lui al fine di scoprire cos’è successo davvero al fratello. Anziché ricorrere al “classico” personaggio disabile, l’autrice ne crea uno nuovo: il disabile moderno efficiente e imperturbabile. Annie ha una forza immensa, ma vista attraverso gli occhi della giovane la sua personalità si fonda solo sulla sua sedia a rotelle. I passaggi riguardanti l’arrivo in aeroporto e il volo verso Mosca (quando non si sa bene cosa troveranno al loro arrivo) mi sono sembrati molto realistici. Sapevo cosa stavano vivendo i due personaggi e riuscivo a immedesimarmi nelle sensazioni di Hayley, la ragazza, mentre le veniva mostrato il lato pratico dell’essere una persona in sedia a rotelle che fa quello che normalmente fanno le persone non disabili. Quello che mancava nel libro era una personalità per Annie.
Il maggiore sforzo compiuto da Gillian Cross per attribuire al personaggio dei sentimenti è stato descriverla come “egoista” o “esigente”, ma siccome vediamo Annie attraverso gli occhi di Hayley, la mancanza potrebbe essere attribuita a questo. Per quanto mi riguarda, non ci ho visto né il calore né la compassione che avevano spinto il fratello di Hayley a innamorarsi di lei. Annie è ritratta con forza un po’ eccessiva per emozioni di questo tipo.
Compariamo queste opere con due romanzi composti nella metà degli anni Sessanta da K. M. Peyton, Flambards (1967) e The Edge of the Cloud (1969). I libri, ambientati agli inizi del Novecento, seguono la vicenda di una giovane orfana mandata a vivere con l’eccentrico zio e i suoi due figli. Lo zio di Christina è rimasto zoppo in seguito a un incidente a cavallo avvenuto anni prima dell’inizio della storia, ma lei arriva proprio il giorno in cui il figlio più giovane, Will, è a sua volta vittima di un incidente simile. Benché l’autrice si avvalga del modello consuetudinario nel descrivere lo zio Russell, la personalità di Will è oggetto di un’analisi più approfondita. Il ragazzo odia i cavalli, e inizia a usare deliberatamente la gamba rotta prima che sia guarita per non essere costretto a tornare a cavalcare. La passione di Will è il volo, ma suo padre non approva affatto, per cui il giovane dovrà scappare di casa per poterla soddisfare. Nel ritrarre questo personaggio, l’autrice ci consegna un giovane che può considerarsi reale in un modo in cui né Beth né Annie lo sono. Will, rispetto a loro, è più completo: litiga con il padre e l’affetto per la cugina orfana si tramuta in amore. Nel secondo volume, viene mostrato come un esperto dei primi modelli di aeroplano, e anche se l’autrice nel descrivere la modifica delle leve necessarie al funzionamento dell’aereo fa riferimento all’aviatore disabile Douglas Bader, è un elemento secondario considerando il romanzo nella sua interezza.
Mi piacerebbe che ci si allontanasse dall’approccio a due dimensioni del modello consuetudinario per avvicinarsi a un’immagine tridimensionale con i suoi pregi e i suoi difetti che rispecchi più accuratamente la realtà. Voglio personaggi disabili a tre dimensioni come i loro coetanei non disabili; affinché siano innanzitutto personaggi e solo secondariamente disabili. È tempo che il grande pubblico sia incoraggiato a prendere coscienza del fatto che abbiamo la stessa gamma emotiva e profonda personalità di chiunque altro e che gli autori ne tengano conto nel creare personaggi con disabilità. Da disabile, mi infastidisce essere definita (troppo spesso a portata d’orecchio) “la persona in sedia a rotelle” o peggio ancora “la sedia a rotelle”. Mia madre non ha messo al mondo un pezzo d’arredo che per combinazione ha una componente non meccanica. Io sono un essere vivente come voi! Solo quando gli scrittori lo capiranno, inizieremo a vedere libri con all’interno personaggi disabili “reali”.
Note
Bibliografia:
Alcott, Louisa May. 1934. Little Women. London: Harrap (first published 1868).
Aveling, Helen. 2 July 2002. Review of Take Up Thy Bed And Walk. TopsyWeb. 2 May 2003.
Cross, Gillian. 2001. Calling a Dead Man. Oxford: Oxford University Press.
Edlin-White, Rowena. 1996. Clo and the Albatross. London: Lion Publishing Ltd.
Keith, Lois. 2001. Take Up Thy Bed And Walk. London: The Women’s Press.
Peyton, K M. 1979. Flambards. London: Penguin Books.
Peyton, K M. 1989. The Edge of the Cloud. Oxford: Oxford University Press.
Spyri, Johanna. 1966. Heidi. London: Penguin Books (first published 1880).
Nota biografica:
Helen Aveling è nata in Malawi nel 1958. È nata con una paralisi cerebrale che fa parte integrante della sua vita quanto il suo amore per i libri. È cresciuta in Inghilterra dove ha trascorso un’infanzia e un periodo scolastico felice; è stata la prima donna della sua famiglia a conseguire una laurea. Collezionare libri è stata l’estensione naturale dell’amore che nutre nei loro confronti, e ha una raccolta impressionante di volumi per bambini. Solo negli ultimi anni ha iniziato seriamente a integrare le sue idee sulla disabilità con i suoi sentimenti per i libri.
Quanto esposto nel presente articolo è stato ulteriormente approfondito nel volume dell’autrice Unseen Childhoods: Disabled Characters in 20th-century Books for Girls.