Sul tradurre
Raccolta di opinioni sul non tradire
La traduzione è una delle forme dell’interpretazione e deve sempre mirare, sia pure partendo dalla sensibilità e dalla cultura del lettore, a ritrovare non dico l’intenzione dell’autore, ma l’intenzione del testo, quello che il testo dice o suggerisce in rapporto alla lingua in cui è espresso e al contesto culturale in cui è nato.
Vale la pena di dire una parola anche sulla condizione dello scrittore che si trova ad essere tradotto. Essere tradotti non è un lavoro né feriale né festivo, anzi, non è un lavoro per niente, è una semi-passività simile a quella del paziente sul lettino del chirurgo o sul divano dello psicoanalista, ricca tuttavia di emozioni violente e contrastanti.
La parola traduzione deriva, etimologicamente, dal latino “portare di là”. Poiché noi siamo persone portate di là dal mondo, siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa guadagnare qualcosa.
Credo che una buona traduzione presupponga di aver compreso il testo, e che a sua volta questo presupponga di aver vissuto nel mondo reale, tangibile, senza mai ridurre tutto alla semplice manipolazione delle parole.
Il traduttore è una bestia un po’ particolare. Così come io l’ho fatto e come lo intendo, è una persona molto disposta all’ascolto, a restare nell’ombra, dotata di grande umiltà e devozione, forse di masochismo, ma anche di un’enorme curiosità. […] L’atteggiamento del traduttore è quello di uno che non si appaga di sé, e che si appaga solo nel momento in cui si appoggia sulle spalle di un gigante.
La traduzione teatrale implica una particolare sensibilità per la dicibilità della battuta: e può anche succedere che la perfetta conoscenza di una lingua non sia sufficiente a una buona traduzione teatrale, proprio per difetto di un’adeguata resa teatrale. […] Per tradurre, incondizionatamente e qualsiasi cosa, non basta la conoscenza della lingua ma occorre anche quella della cultura e della storia che di quella lingua si sono servite.
La “Paglia e fieno alla boscaiola” era stata tradotta poeticamente, pure con la rima, in Straw and hay in the forrester way. Nel leggere il menù, mia madre visualizzava un turista che temeva di vedersi arrivare un piatto di erbe e fieno “alla moda del guardaboschi” e rideva da sola.
Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C’è un silenzio profondo, ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo.
Quel lavoro di formica e di cavallo che è una traduzione. Quel lavoro che deve combinare la minuziosità di una formica e l’impeto di un cavallo.
Tradurre vuol dire provare e fallire, riprovare, e fallire sempre meglio.