Labyrinth di Jim Henson: Trent’anni dopo
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Nel 1986, Jim Henson (1936-1990), noto in Italia soprattutto per i Muppets, girò un film fantasy intitolato Labyrinth in cui David Bowie e una giovanissima Jennifer Connelly interagivano con una serie di pupazzi, creati con tecniche innovative per l’epoca, all’interno di un insolito labirinto simbolo del passaggio tra adolescenza ed età adulta. Il presente testo è la traduzione, a cura mia, di alcuni frammenti scelti dei dialoghi che commentavano il making of della pellicola, e vuole essere un omaggio alla grandezza di Jim Henson in occasione del trentennale del film.
L’idea iniziale:
David Bowie (“Jareth”): Jim Henson mi presentò un abbozzo dell’idea nel 1983, durante il tour che stavo facendo in America, e mi chiese se mi poteva interessare. Mi mostrò le illustrazioni di Brian Froud, e mi portò anche una copia di Dark Crystal che mi sembrò molto appassionante. Capii subito il potenziale di un’opera di questo tipo, con personaggi in carne e ossa, canzoni, e con una sceneggiatura che andava ben oltre la semplice commedia leggera.
Jim Henson: A quel punto, visto che gli piaceva la sceneggiatura, gli chiesi se era disposto a interpretare Jareth e scrivere anche le canzoni del suo personaggio e dell’intero film. David si dimostrò subito entusiasta, fin dall’inizio. Le persone di tutte le età vanno matte per David, e lui è un uomo normalissimo, competente, onesto e assolutamente professionale.
David Bowie: Jareth è il re dei goblin. E uno intuisce subito che ha ereditato questo ruolo con riluttanza, in quanto avrebbe preferito molto di più trovarsi – che ne so – giù a Soho, o qualcosa del genere (ride). Ma non può. Il suo destino è essere il re dei goblin e cerca di svolgere il ruolo al meglio delle sue possibilità. Ed è anche molto viziato. Fa tutto quello che vuole. È un bambinone. E un giorno succede che i goblin, agendo di testa loro, rapiscano il fratello in fasce di un’altra ragazzina e lui si ritrovi a dover gestire l’intera situazione.
Jim Henson: Per un paio di numeri musicali, ci siamo avvalsi della collaborazione di Charles Augins, che ha lavorato con David alle coreografie di Magic Dance. Volevano qualcosa di vivace, dinamico, come una danza black movement. Ed è esattamente quello che fa Charles ogni giorno.
David Bowie: Jim mi ha dato carta bianca. Mi ha permesso di dire quello che volevo, e di scrivere quello che volevo. Magic Dance mi ha creato un po’ di problemi. È una canzone concepita per il re dei goblin e il bambino. Nello studio di registrazione, il bambino che avevo scelto – una delle coriste, Diva, aveva un bimbetto molto grazioso – non era capace di mettere insieme due ciangottii che fossero due. E non funzionava. Gli diedi anche un calcetto (sorride), feci tutto il possibile perché strillasse un po’, ma niente. Teneva le labbra serrate. Così andò a finire che i ciangottii me li feci io da solo. Quindi in quel brano interpreto anche il ruolo del bambino. Dopotutto, chissenefrega, ho fatto Laughing Gnome, nel 1967, e dato che ci sono posso fare anche questo. Non avrei mai pensato che, dopo vent’anni, sarei tornato a lavorare con gli gnomi.
Pupazzi e burattinai:
Brian Henson (responsabile del movimento dei pupazzi): La scena della stanza di Jareth prevedeva un’enorme quantità di pupazzi. C’erano quarantotto pupazzi sul set e cinquanta, forse cinquantadue o cinquantatre, burattinai che lavoravano in contemporanea. Era una stanza colma di pupazzi fino all’orlo. E realizzare quella scena si è rivelata una vera impresa. È stato molto divertente e anche folle. Folle senza dubbio. C’erano molte persone e i pupazzi spuntavano da ogni parte dello scenario; sembrava di stare dentro un formaggio svizzero, tutto pieno di buchi e senza neanche uno spazietto libero. La gente continuava ad andare su e giù dicendo che da un momento all’altro la scenografia sarebbe crollata. L’idea iniziale, prevedeva la presenza di venti personaggi in scena, ovvero venti pupazzi. Ma a mano a mano che la cosa si concretizzava, ci rendemmo conto che ne sarebbero serviti molti di più. Così, ci trovammo a fare i provini per i burattinai una settimana prima, per reperire le venti persone che si sarebbero aggiunte alle già tante che lavoravano al progetto.
Siccome la confusione che avevamo non era sufficiente, a incrementarla ci pensarono anche gli otto/dodici nani in costume che correvano da tutte le parti e che, durante un passaggio preciso della canzone, dovevamo agganciare a un’apparecchiatura volante, tramite un’imbracatura, affinché saltassero a otto piedi di altezza. Fu davvero una scena folle. A nessuno di loro fu detto nello specifico cosa fare, soprattutto quando non si sentiva la canzone in sottofondo. Gli fu solo detto di comportarsi come goblin.
La scelta della protagonista:
Jim Henson: Quando ti ritrovi a fare i casting per una parte come quella di Sarah, la protagonista del film, speri sempre che a un certo momento entri dalla porta la persona giusta. Quando Jenny (Jennifer Connelly) è entrata, era la persona giusta, ed è stato uno di quei magici momenti. Ha dato un’ottima interpretazione ed è un’attrice brillante e intelligente che ascolta con attenzione le istruzioni del regista. Grazie a lei, tutto è andato benissimo.
Jennifer Connelly (“Sarah”): Non ho mai sognato di fare l’attrice. Volevo diventare veterinario o falegname o qualcosa del genere; forse nemmeno io sapevo quello che volevo diventare. Ma comunque non ho mai pensato di lavorare per il cinema. Così, ho iniziato a fare la modella perché alcuni amici dei miei genitori mi avevano chiesto se mi sarebbe piaciuto farlo. Poi, ho girato qualche spot pubblicitario e mi sono presentata anche ai casting di un film, C’era una volta in America. Credo che sia il primo film che io abbia mai girato. Non lo so, sono cose che capitano.
Pupazzi “scatenati”:
Jim Henson: A un certo punto del film, Sarah incontra un gruppo di personaggi chiamati Fireys. La prima volta che ci siamo imbattuti in loro, non sapevamo nemmeno come si sarebbero mossi.
Terry Jones (scrittore): Erano usciti direttamente da un disegno di Brian e facevano versi del tipo “hiia!”, “ooowa!”, “waaah!”. Erano chiaramente dei selvaggi. E così immaginai che saltassero fuori in un momento in cui Sarah si sentiva completamente smarrita dandole in qualche modo una mano. Solo che non era possibile calcolare quanto selvaggi si sarebbero dimostrati! Poi, cantavano una canzone che diceva qualcosa del tipo: “Alza i piedi! Alza la testa!”, e io pensai che sarebbe stata un’ottima idea fargli alzare la testa dalle spalle mentre la cantavano. In seguito, nel procedere della canzone, finivano sempre per dire: “Nessuno è selvaggio come me!”, e a quel punto avrebbero sollevato la testa dalle spalle e iniziato a sballottarla come un pallone da basket e a lanciarla in giro.
Jim Henson: Il problema di partenza era appunto come creare la cosa nel suo complesso, considerato che i pupazzi dovevano avere parti separate che poi sarebbero state messe tutte assieme in modi diversi. All’inizio, non sapevamo proprio come si sarebbero mossi questi personaggi. Quindi abbiamo affidato il lavoro a diversi burattinai solo per studiarne il movimento e le capacità. Abbiamo provato a manipolarli in vari modi, attaccando i piedi dei personaggi ai piedi dei burattinai e muovendoli con delle bacchette. Ci siamo così accorti che applicando metodi diversi i pupazzi si muovevano in modo diverso. Ma la domanda principale era: “Come vogliamo che si muovano?”. Il risultato fu che utilizzammo una combinazione di tutti questi movimenti e quindi le prove si rivelarono molto utili per farci scoprire tutte le possibili configurazioni. Naturalmente, nel momento delle riprese, i burattinai non si dovevano vedere, così li facemmo vestire di velluto nero. Il velluto è probabilmente il tessuto più scuro che si possa utilizzare, ed è per questo che la scelta cadde su quello. Anche il set fu rivestito di nero e fummo costretti a eliminare qualsiasi oggetto riflettente. Anche solo un puntino, si sarebbe visto benissimo. Prima filmammo i pupazzi con una macchina da presa computerizzata e poi rimuovemmo il velluto nero e filmammo lo sfondo, utilizzando un computer per fare in modo che la macchina da presa si muovesse esattamente alla stessa velocità. In seguito, combinammo assieme tutti questi elementi in laboratorio.
Bubo e Gogol:
Jim Henson: Bubo è uno dei pupazzi più grandi che abbiamo mai costruito per una singola persona. È davvero enorme e abbiamo dovuto renderlo più leggero possibile, il che ci ha creato non pochi problemi. Quando eravamo circa a metà della sua costruzione, ho iniziato a preoccuparmi e a chiedermi quale sarebbe stato il suo peso una volta finito. I miei tecnici hanno fatto un sacco di calcoli e alla fine mi hanno detto che il peso sarebbe stato di circa cinquanta chili. Davvero troppo. Così, abbiamo ricominciato daccapo in modo da ridurre il peso. Quello definitivo supera i trentaquattro chili. Mi rendo conto che sono comunque troppi per un singolo individuo e, proprio per questo, abbiamo risolto la cosa facendo in modo che fossero due le persone a darsi il cambio. Rob Mills e Ron Mueck hanno circa la stessa altezza e corporatura del pupazzo, quindi sono riusciti benissimo a gestirlo. Senza contare che oltre alla fatica fisica richiesta dovevano anche recitare.
Gogol, in compenso, è senza dubbio il pupazzo più complesso che abbiamo mai costruito. Ha una faccia molto elaborata perché ci abbiamo inserito circa diciotto motori per poterne controllare tutte le porzioni e quattro persone dovevano gestirla, dall’esterno, con un radiocomando. Il solo immaginare come fargli assumere un’unica espressione crea, già di per sé, non pochi problemi.
Brian Henson: Gogol è gestito da un totale di cinque persone. Cinque persone, una delle quali è un’attrice di nome Shari che sta dentro il costume e compie tutti i movimenti corporei, mentre la sua testa è dentro la testa del pupazzo anche se la sua mascella è ovviamente distinta da quella di quest’ultimo. Quindi, la faccia del pupazzo non riproduce le espressioni facciali dell’attrice ma ha un suo movimento indipendente. Le altre quattro persone, me incluso, gestiscono la faccia del pupazzo con il radiocomando. […]
Cinque persone impegnate a tirar fuori un unico personaggio da un pupazzo è una fatica non da poco. Abbiamo dovuto fare molto prove, per conoscerci reciprocamente e imparare anche il sincronismo di ognuno. Perché quando io facevo: “Fuuih!” [lo fa con la voce di Gogol], anche gli occhi del pupazzo dovevano fare: “Fuuih!” [ruota gli occhi] e anche Shari che stava dentro al pupazzo doveva fare: “Fuuih!” [ruota la testa], e tutti lo facevano in contemporanea e sapevano cosa stava succedendo e sapevano esattamente quale doveva essere il risultato. Ci sono volute molte prove per arrivare a questo.
La scenografia ispirata a un quadro di Escher:
Jim Henson: Per un grafico, creare un’illusione ottica bidimensionale è già abbastanza difficile. Ma crearne una tridimensionale, come avviene nella scena di Labyrinth ispirata a un quadro di Escher, è stata una vera sfida per il nostro disegnatore di produzione, Elliot Scott. Scotty disegnò la scenografia in modo che nulla permettesse di capire quale fosse il sopra e quale il sotto, poiché tutto si intersecava. In altre parole, niente lasciava trasparire quale fosse la parte superiore e quale quella inferiore, quindi era impossibile riuscire a orientarsi in base a quello che si stava osservando. L’intera sequenza fu accuratamente messa su carta e l’abbiamo seguita con una scrupolosità maggiore di qualsiasi altra sequenza del film perché prevedeva che David facesse cose umanamente impossibili, ma realizzabili attraverso particolari effetti meccanici. La cosa ha funzionato perché, grazie alla specifica struttura della scenografia, siamo riusciti a puntare la macchina da presa in modo da filmare la scena da diverse angolature.
I “giochi di mano” di David Bowie:
Jim Henson: Conosco il giocoliere Michael Moschen da anni e, dal mio punto di vista, il numero che riesce a fare con le sfere di cristallo è qualcosa di veramente magico. Era questa l’idea che avevamo del personaggio di Jareth. Volevamo che possedesse qualche potere magico e un oggetto che gli permettesse di esercitarlo. Così, pensammo di utilizzare Michael a questo scopo. Nello specifico, volevamo che il braccio destro di Michael diventasse il braccio di David. Era come se fosse la sua controfigura, così David poteva esercitarsi a compiere il medesimo movimento. Michael doveva stare accucciato dietro a David, praticamente piegato, per evitare che la macchina da presa lo riprendesse. Adesso, è in grado di fare quel numero anche bendato. Quando abbiamo girato la scena, Michael si è dimostrato molto paziente. Non mi ricordo neanche più quanti ciak abbiamo fatto, ma senza dubbio tantissimi.
David Bowie: È stato spassoso. Lo ammetto, mi sono divertito proprio. Anche se dubito che Michael Moschen si sia divertito quanto me. Per lui dev’essere stato un vero strazio.
L’idea di utilizzare un personaggio umano:
Brian Froud (conceptual designer): Dopo aver lavorato a Dark Crystal, realizzato solo con i pupazzi, Jim e io decidemmo che era arrivato il momento di introdurre un elemento umano. Dal nostro punto di vista, un bambino sarebbe stato un personaggio ideale da contrapporre alle creature. Così mi sedetti alla mia scrivania e inizia a dipingere l’illustrazione di un bambino circondato dai goblin; sei mesi dopo nacque mio figlio Toby. La cosa strana è che aveva le stesse sembianze del bambino che avevo disegnato. E fu proprio lui il prescelto per ricoprire quel ruolo nel film.
Il condotto di mani:
Terry Jones: Di colpo mi venne quest’idea, oooh! Tutte quelle mani che sembrano uscire dal muro e che cercano di afferrare Sarah. Pensai che fosse davvero spaventoso. E poi, mi venne in mente che sarebbe stato divertente se tutte queste mani avessero iniziato a parlare con lei. Mi ricordavo di aver visto alcune persone dipingersi sulle mani due occhi e un paio di labbra, e mi sembrò un’ottima soluzione che una delle mani fosse truccata in questo modo e si mettesse a conversare con la protagonista. In seguito, Jim approvò l’idea del condotto pieno di mani che la afferrano e suggerì che queste ultime dovevano formare delle facce.
Jim Henson: Tutti i burattinai dovevano indossare dei guanti di lattice concepiti per sembrare delle mani nodose e artritiche. Ne realizzammo più di un centinaio di paia e i tecnici lavorarono giorno e notte con il lattice di gomma affinché tutto fosse pronto entro i tempi previsti.
La scena del ballo:
Elliot Scott (disegnatore di produzione): La scena del ballo doveva svolgersi dentro una bolla, e capimmo subito che sarebbe stato impossibile per noi gestire la situazione perché, dal lato pratico, non potevamo di certo costruire l’interno di una bolla. Così, anziché realizzare una sala da ballo lineare, cercai di rappresentare l’essenza di una sala da ballo, con enormi capitelli, grandi lampadari e specchi; così si vedevano gli specchi e i riflessi stessi degli specchi all’interno di altri specchi. I costumi disegnati da Brian Froud, in compenso, ricordavano vagamente le sale da ballo veneziane del XVIII secolo, con maschere deformate e cose di questo tipo. Le persone presenti in sala dovevano sembrare alquanto depravate, come in effetti poi è stato.
Brian Froud: Disegnare i costumi per una bolla è stata una sfida interessante. Così, decisi che la bolla sarebbe stata per me come un marchese o una tenda. Immaginai che i personaggi si trovassero a una specie di garden-party, che facessero parte della piccola nobiltà e che si travestissero per fingere di essere dei goblin. E ho cercato di fare in modo che questo mio immaginario si rispecchiasse anche nelle maschere che ho concepito. Anche se avevano questo tocco veneziano, dovevano sembrare delle parodie dei goblin stessi. Volevo che tutto fosse straordinario perché si trattava di un film fantasy.
Jim Henson: L’obiettivo era creare un mondo adulto. In questa scena, infatti, non ci sono pupazzi ma persone vere. Sarah è ancora una bambina e si trova a vivere una situazione tipica degli adulti con la consapevolezza, però, di essere ancora troppo giovane. È un mondo da cui si sente fortemente attratta ma per il quale, allo stesso tempo, prova anche un certo disgusto. Mi è piaciuto riprendere questa scena. È stato divertente cercare di fondere assieme questi diversi concetti.
Per ulteriori approfondimenti, è utile consultare l’articolo pubblicato, nel 1986, dal New York Times proprio in riferimento al film Labyrinth e a possibili parallelismi con il racconto Lo schiaccianoci e il re dei topi di E.T.A. Hoffmann: