Intervista a Antonio Buero Vallejo
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Il presente articolo è tratto dal Boletín Cultural y Bibliográfico, Vol. 5, Núm. 06, 1962, Biblioteca Luis Ángel Arango del Banco de la República, Colombia, pagg. 752-754. L’autore è Luis Navarro. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Se avete assistito a una rappresentazione di Historia de una escalera, En la ardiente oscuridad o Las Meninas e volete conoscere il loro autore, venite con me. Affrettiamo il passo, l’incontro è fissato per l’una e mezza e sono già le due. Siamo in Plaza de Cibeles e dobbiamo ancora percorrere la salita di Alcalá sotto la canicola estiva madrilena, perché non sappiamo se la metropolitana ha la fermata più vicino o più lontano della nostra destinazione, e il taxi… Forza, continuiamo a salire, forse è subito svoltato l’angolo.
Puerta de Alcalá: Reggente Carlo III Anno… Antonio Buero Vallejo, il più incisivo e peculiare drammaturgo della Spagna contemporanea… Statua equestre di Espartero… È di Guadalajara – terra di Juan Ruiz e del Marqués de Santillana – e ha quarantasei anni. Ha fatto il pittore e ha vinto il Premio Lope de Vega nel 1949 con la pièce Historia de una escalera, tradotta in molte lingue (la prima traduzione italiana in volume risale al 2008. N.d.T.) e trasposta anche al cinema.
Hermanos Miralles 36. La portinaia, tipica istituzione madrilena che taglia corto e fa battute, grida verso di noi dalla porta quando già stiamo chiudendo l’ascensore: “Sesto piano porta al centro!”.
Forse voi già conoscete il volto di Buero Vallejo da qualche pubblicazione. Io me lo immagino con un profilo da operaio spagnolo: capelli lisci tirati all’indietro, naso aquilino, occhi neri. Quando suoniamo il campanello la sua fotografia e le creature delle sue opere ci predispongono all’incontro. Ma lui è già qui. In effetti, è come lo immaginavamo, solo il suo “essere e stare nel mondo” non soddisfa la nostra predisposizione: con cautela orientale, calma e rigorosa cortesia, ci invita a conversare.
La sala in cui ci fa accomodare, il suo studio per la macchina del teatro, è piccola e borghese. Sugli scaffali della biblioteca, nel punto più in vista, una magnifica fotografia di García Lorca, dall’aria riposata e serena. Una finestra da cortile interno conferisce un’atmosfera di chiara penombra alla gestualità sobria di Buero Vallejo.
Ci si accende una sigaretta, si colloca un portacenere a portata di mano, si citano Calderón, Ibsen, Fabbri, Brecht, l’avanguardia parigina e l’attuale scenario del teatro spagnolo.
Buero parla e cita, quando non sono originali, le fonti del suo pensiero teatrale: “In Calderón prevalgono due forme di espressione drammaturgica: il simbolo e l’allegoria. Il simbolo assume maggior valore e validità drammaturgica perché la situazione o il personaggio simbolico, a differenza dell’allegoria, sono unici e irripetibili. In linea di principio, il trattamento allegorico non funziona sulla scena. Se Calderón, malgrado questo, riesce, con l’allegoria, a fare del buon teatro e a conferirgli valore artistico, la ragione è eccezionale in virtù del suo talento creativo. La causa è soggettiva. Ad ogni modo, il Calderón dei Drammi e misteri sacramentali non è il Calderón superiore di La vita è sogno”.
“Questo modo di approcciare il trattamento drammaturgico”, prosegue Buero, “potrebbe essere utile a Brecht. Quando Brecht fa teatro pedagogico – lui stesso ha raccolto varie opere sotto il titolo Drammi didattici – dal mio punto di vista lo fa appoggiandosi a un modo falso di fare teatro, e il risultato è inferiore sia come scienza che come arte drammatica. In compenso, quando l’intenzione del drammaturgo è prevalentemente creativa e la realtà non viene snaturata dalla difesa di una causa – l’apoteosi religiosa in Calderón, il trionfo politico in Brecht – il teatro emerge con maggiore qualità e forza autentica. È il caso, per esempio, dell’Anima buona di Sezuan, Il cerchio di gesso del Caucaso e Madre coraggio.
“Lei pensa che Ibsen abbia veramente quel valore che finora gli è stato attribuito?”.
Buero Vallejo, sereno e concentrato, che fino a quell’istante si era espresso con voce monotona da litania e con una minima gestualità, viene colto da improvvisa esaltazione: “Ibsen! Ibsen è una delle massime divinità del firmamento drammaturgico. Il problema, forse, è che oggi il suo lessico risulta un po’ antiquato, proprio perché è strettamente legato alla sua epoca”.
Si accenna alla parola “processo” e l’italiano Diego Fabbri entra per alcuni secondi nella nostra conversazione: il verdetto rispetto a Processo a Gesù è unanime. “In questo caso”, afferma Buero Vallejo, “si è sollevata una grande polemica attorno alla correttezza grammaticale del titolo. Si dovrebbe dire Processo di Gesù, per logica sintattica. Ma questa è una questione senza importanza, credo che sostenitori e detrattori abbiano versato tanto inchiostro perché un po’ hanno preso fischi per fiaschi”.
Esortiamo Buero Vallejo a nominare gli autori per lui importanti della scena spagnola e, senza esitare, ci indica Miguel Mihura, l’applaudito autore di Tre cappelli a cilindro. Poi ci parla di giovani talenti, Fernando Arrabal – che già da tempo risiede a Parigi e “abbiamo perso per il nostro teatro nazionale” –; Carlitos Muñiz – presentato al Festival delle Nazioni di Parigi, paradossalmente per l’allestimento portoghese –; Lauro Olmo, la cui pièce La camisa è appena stata allestita da un teatro da camera suscitando molto interesse.
La conversazione raggiunge un punto nevralgico quando affrontiamo il teatro d’avanguardia. Buero Vallejo, realista fino all’osso, umanista e onesto, chiarisce subito il suo pensiero. “No, mi stia a sentire, quello che si fa a Parigi in questo periodo non risveglia nessuna forma di proselitismo tra gli autori spagnoli. Sono mezzi diversi. L’assurdo in quanto elemento di espressione teatrale qui in Spagna non interessa”.
Mi viene subito in mente l’arte plastica e il suo gran prosperare e mietere consensi per la corrente informale in Spagna: la scuola di Barcellona con il pioniere Tapiés e i suoi epigoni, fanatici del “distinto” ed “épatant”; le sale “chic” di Madrid, Barcellona e svariate capitali di provincia che sfoggiano la loro più magnifica mostra di arte “difficile”; la profonda confusione dei cervelli critici impegnati; e infine, mi ricordo i sorrisi Colgate di fronte alle manifestazioni di arte realista, facile, povera, retrograda…
“In ambito teatrale non valgono i sotterfugi”, prosegue Buero Vallejo, “bisogna saper raccontare con figure in carne e ossa vicende in carne e ossa per un pubblico in carne e ossa. L’autore, il bravo autore drammatico, non sta giocando con bambole di un teatro di marionette per bambini. Ad ogni modo, mi riferisco all’atteggiamento degli autori spagnoli in proposito. La tradizione realista della nostra letteratura drammatica è troppo forte”.
L’attenzione cade su due disegni che ornano una parete della sala e l’ex pittore Buero Vallejo spiega: “Sono miei; sono anni che non faccio più cose simili (“cose” nel senso di arte plastica). All’inizio, la pittura è stata una vera ossessione. È curioso il numero di autori teatrali che hanno iniziato con la pittura”.
“C’è qualcosa che l’autore Buero Vallejo vorrebbe dire a chi inizia a scrivere per il teatro?”.
“Beh, veramente io ho qualcosa da “dire” solo sulle opere che mi portano, mentre quelli che lo fanno vorrebbero che io “dicessi” su di loro. La mia risposta è sempre la stessa: “Cosa pretende da me? Che le pronostichi il futuro?”. Perché nel nostro mondo dell’arte il pronostico accademico è impossibile. Soprattutto in ambito teatrale, tutto è imprevedibile. Oggi un’opera arranca e domani conosce un successo incredibile, oppure accende una rivalità tra critica e pubblico. Ho visto giovani di sicuro talento cadere nel dimenticatoio e scomparire; e attualmente vedo persone, i cui debutti furono insignificanti, portare sulla scena opere di vero valore. La causa è un altro discorso; ma questa è materia per psicologi non per professionisti”.
A poco a poco, l’iniziale atteggiamento formale è andato riducendosi, di sigaretta in sigaretta la conversazione acquisisce vivacità e spontaneità. Emergono le sonore esclamazioni castigliane. Il Buero Vallejo fisico si armonizza di più con il Buero Vallejo psicologico che immaginiamo. Non siamo più “egregi”.
Il tempo è volato e ha lasciato indietro l’ora di pranzo. Dalla porta socchiusa alle nostre spalle si affaccia il volto di una donna giovane, minuta, dallo sguardo espressivo, e un bambino di quattro anni ci viene incontro incespicando; mostrando il braccetto ci dice: “Mi son fatto la bua sul balcone”. Sembra il principino di Saint-Exupéry. Buero Vallejo, padre, sorride e ci presenta la moglie. Non ci resta che scusarci con la padrona di casa: le tre e mezza sono passate ormai da tanto.