Sette anni di regressione: Paul Auster e gli Stati Uniti
Traduction de Annamaria Martinolli
Il presente articolo è stato pubblicato su Hors-série, Le Nouvel Observateur, Les Essentiels, L’Amérique vue par ses grands écrivains, n. 2 mai-juin 2013, a cura di François Armanet e Gilles Anquetil. Il copyright appartiene a Le Nouvel Observateur. Tutti i diritti sono riservati. Si ringrazia Paul Largillière per l’autorizzazione alla traduzione, a cura di Annamaria Martinolli.
Sono già ventotto anni che vivo a Brooklyn. Rispetto a Manhattan, è un luogo migliore per scrivere. Non lavoro da casa, ma in un piccolo ufficio, poco distante, alla parete del cui bagno ho appeso la copertina di una rivista di poesia, datata 2002, che dice: USA out of NYC. Sì, lo ammetto, sogno spesso la secessione di New York dagli Stati Uniti, e il suo diventare una città indipendente, una città-mondo. Ovviamente, New York fa parte degli Stati Uniti, ma noi abitanti ci sentiamo anche molto diversi dal nostro Stato di appartenenza. Manhattan, per me, è come trovarsi sia negli Stati Uniti che all’estero. Gli stranieri, nello specifico gli europei, faticano a comprendere fino a che punto la vita newyorkese possa essere provinciale; non concepiscono nemmeno il fatto che la città sia suddivisa in diversi distretti. Questo discorso vale per Brooklyn, il Bronx e il Queens, ciascuno dei quali ha propri usi e costumi, e un proprio modo di pensare. Tuttavia, il fatto che il 40% della popolazione newyorkese sia nata all’estero è una ragione più che sufficiente per considerare New York un luogo a parte, che non ha nulla a che vedere con il Midwest. Per me, è la città più democratica degli Stati Uniti, grazie alla sua multietnicità e multireligiosità… Noi newyorkesi siamo stati costretti a imparare a convivere, altrimenti saremmo esplosi. Non smetto mai di chiedermi come abbia fatto New York a non diventare Sarajevo, Belfast o Gerusalemme, ma in città sono presenti talmente tante comunità che qualsiasi tipo di conflitto renderebbe la vita insostenibile. Il razzismo c’è, su questo non si discute, così come ci sono l’intolleranza e la violenza, ma la maggior parte delle persone si sforzano di convivere. Ecco perché io amo così tanto New York.
George Bush ha calpestato i fondamenti stessi della democrazia americana, e ci ha fatto regredire a un periodo buio che non ha eguali nella storia degli Stati Uniti. Il male da lui causato è talmente profondo e grave che per porvi rimedio ci vorrà parecchio tempo. Tanto più che, adesso, la Corte Suprema è infiltrata dalla destra. Bush non ha saputo prendere che pessime decisioni. L’esistenza stessa di Guantanamo, la legittimazione e la pratica scientifica della tortura sono qualcosa di totalmente inimmaginabile. Tutti sanno che gli Stati Uniti, nel corso del tempo, hanno compiuto oscuri intrighi in ambito internazionale, soprattutto durante la guerra fredda. Il concetto stesso di “guerra preventiva” è paranoia pura. I diritti civili vengono aboliti, i cittadini sono spiati e ci si fa beffe della legge dell’habeas corpus… Ci sono persone che stanno scontando tre-quattro anni di carcere senza essere state accusate di nulla. È una violazione, bella e buona, di tutti i principi fondanti della democrazia americana. Per non parlare della disastrosa politica economica di Bush, che non ha fatto che arricchire i ricchi e impoverire il resto della popolazione. Il nuovo libro di Naomi Klein, Shock Economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri, è davvero illuminante a questo proposito: l’autrice analizza gli effetti devastanti, su scala mondiale, di trentacinque anni di capitalismo liberale alla Milton Friedman. Non ero consapevole di tutte queste shock therapies finché non ho letto il capitolo dedicato all’Iraq, e non ho capito fino a che punto, questa guerra, avesse arricchito una serie di imprese che non avevano fatto altro che pompare denaro dalle tasche dei contribuenti. Tramite questo assoggettamento illimitato alle imprese, Bush sta pervertendo il ruolo stesso del governo. L’unica buona notizia è che tra un anno lascerà la Casa Bianca, e mi auguro tanto che, fino ad allora, non commetta qualche altra pazzia, poiché sono quasi certo che i democratici vinceranno le elezioni, a meno che non si verifichi un nuovo attentato o non scoppi un’altra guerra.
Sette anni di menzogne ufficiali sono un tempo abbastanza interminabile. Già a fine estate 2002, durante il primo anniversario dell’undici settembre, mentre iniziava a circolare la voce di una possibile invasione dell’Iraq, avevo scritto una rubrica sul New York Times per mettere in guardia i lettori contro quella che secondo me, vista dal Ground Zero, minacciava di diventare una catastrofe mondiale. Com’è possibile che io fossi consapevole di un tale pericolo e il governo no? Era talmente evidente che stavamo andando dritti verso il disastro. La guerra in Iraq è stato il peggior errore, nonché il più stupido, mai commesso da un’amministrazione americana. E tuttora non se ne viene fuori. Le conseguenze, invece, sono già catastrofiche. Spero almeno che, se saranno eletti, i democratici facciano qualcosa per porre fine a tutto ciò, poiché la vigliaccheria è sempre in agguato. Temono gli attacchi della destra, che in questo paese gode di un potere ancora notevole. Io, però, incrocio le dita… Dovendo scegliere, preferirei Barack Obama. Hillary Clinton ha indubbiamente più esperienza, ma è centrista e molto timorata, Obama, invece, ha più coraggio politico e più audacia di idee. Quello di cui abbiamo bisogno è un elettroshock radicale. Comunque, se le cose non dovessero andare come prevedo, non farei il difficile e mi accontenterei della Clinton…
Mi è capitato solo due volte nella vita di desiderare di realizzare un film (e non parlo delle mie collaborazioni con Wayne Wang in Smoke e Blue in the face, che sono state esperienze diverse). In entrambe le occasioni, queste storie mi sono apparse subito come progetti cinematografici, non ho mai pensato di farne dei romanzi. Mi sembravano fatte per essere viste, e non saprei spiegare il perché; la ragione può essere che la loro struttura è molto semplice. Per me, un romanzo è paragonabile a un quadro, carico di dettagli e di significati profondi; un film, invece, somiglia piuttosto a un disegno, un disegno di notevole semplicità compositiva. Un film non ha l’ampiezza di un romanzo, ma si avvicina di più a quella di un racconto o di un romanzo breve. In due ore, una pellicola non può abbracciare un’enorme quantità di argomenti. Inoltre, anche se il film durasse otto ore, non produrrebbe comunque lo stesso effetto di un romanzo, poiché quest’ultimo suggerisce mentre il primo mostra. Ragion per cui ho cercato di proporre dei film ambigui, lacunosi, che permettessero agli spettatori di porsi delle domande su ciò che stavano vedendo. Forse, si è trattato di un tentativo di trovare un equivalente a quell’assenza di immagini imposte che caratterizza la letteratura.
Credo non ci sia nulla di più irreale del cinema! È un mondo totalmente artificiale. Il cinema è bidimensionale: è un semplice rettangolo, un quadro da riempire. Un romanzo, invece, è pluridimensionale. Quando ne scrivo uno, percepisco l’odore e il sapore delle cose, sono completamente immerso in quel mondo, in quel racconto che, pian piano, si snoda. I miei romanzi non hanno nulla di cinematografico: contengono pochi dialoghi, poche descrizioni e la narrazione non è suddivisa in scene. Ecco perché lavorare a qualche film, di tanto in tanto, per me è un piacere: l’approccio è completamente diverso. In un film si ragiona non solo in termini di quadri, ma di scene: la narrazione, come lo spazio, è interamente frammentata. E poi bisogna tenere in debita considerazione i dialoghi, e mostrare i luoghi come fossero una descrizione.
Tutto ciò che scrivo esce dal mio inconscio. Non ho mai deciso di scrivere un romanzo su un argomento specifico. C’è qualcosa che ribolle nelle profondità di me stesso, non saprei spiegare esattamente dove o perché; a un certo punto questo qualcosa affiora a livello cosciente e inizio ad intravvedere un personaggio o una situazione che inseguo. È un po’ come sognare ad occhi aperti. Le cose accadono, ecco tutto. Se si cerca di controllarle, ben presto tutto diventa artificiale e costruito. Bisogna lasciare che i personaggi prendano il potere. Io non ho alcun controllo su di loro. Non posso esercitare alcuna censura. Non sono un burattinaio, sento una voce sconosciuta e mi limito a seguirla. Non sono io a condurre il gioco. Solo in seguito riesco a cogliere il significato di ciò che ho scritto, e la ragione di questa o quella peripezia. A quel punto, tutto mi sembra incredibilmente semplice e chiaro, e mi stupisco, a scoppio ritardato, della mia stupidità. Quinn o Anna Blume, appartenenti ai miei primi romanzi, sono i personaggi con i quali convivo da più tempo. Non smetto mai di pensare a loro. Quinn riemerge spesso in superficie, in modo subdolo. Non saprei dire da dove ha origine questa mia ossessione per le storie incastonate l’una nell’altra o proliferanti; probabilmente dipende dal mio modo di pensare. È un procedimento simile al collage: la messa in relazione di elementi eterogenei possiede un’energia di molto superiore a quella della somma delle loro parti. Ma in questo non vi è nulla di intenzionale o di cosciente, al contrario, deriva da un approccio istintivo: ognuno dei miei libri ha una forma che gli è propria. Alcuni seguono uno sviluppo lineare, altri descrivono dei cerchi, altri ancora assomigliano a dei collage o possiedono (come nel caso di La vita interiore di Martin Frost) una struttura a incastro, simile alle matrioske russe. Non si tratta né di un manifesto, né di una scelta estetica, ma è semplicemente il risultato di un procedimento; per me, è il fondo a determinare la forma. Ho una storia da raccontare, ed è proprio lei a dettarmi il modo in cui farlo. Ecco perché ogni nuovo libro rappresenta per me una nuova avventura. E nulla, di quello che ho già scritto, può aiutarmi in questa esplorazione. I libri passati non mi servono per capire come scrivere i libri futuri. È come se avessi sempre l’impressione di essere un debuttante, di dover ripartire costantemente da zero.
Cos’è una storia? La definizione più semplice sarebbe la seguente: una storia è qualcosa che parla delle attività e delle passioni umane, dei meccanismi della realtà e del nostro stare al mondo. Ma una storia ha bisogno di una forma e, in un certo senso, purifica il mondo. Sono molto legato alle forme più primitive di narrazione, ai racconti di fate ad esempio. Il mio film, La vita interiore di Martin Frost, è una di queste storie. I racconti di fate mi affascinano perché forniscono pochissimi dettagli. La mente umana è terrorizzata dal vuoto, di conseguenza, mette subito a disposizione, da sola, tutti i dettagli mancanti. È questo coinvolgimento, dello spettatore o del lettore, a favorire la strutturazione della storia e a completare il lavoro del narratore. Più si ha la possibilità di eludere, migliore sarà la storia. Dicendo troppe cose, si ostacola l’accesso alla storia, e non si offre un’apertura al lettore. Ogni lettore ha un suo modo peculiare di leggere un libro, poiché in esso riversa il proprio passato, la propria vita, la propria personalità e il proprio carattere, e di conseguenza lo interpreta differentemente. È questo che, secondo me, fa dell’immaginazione un’avventura; un’avventura che non ha nulla di premeditato. È un campo aperto in cui, ogni lettore, può dare il suo contributo, non solo alla lettura, ma anche alla scrittura; e da questa collaborazione ognuno trae uno specifico beneficio.
Il mio cineasta preferito in assoluto è il Jean Renoir degli anni Trenta. A causa della dovizia di particolari, tipica dei romanzi, della psicologia dei personaggi e dello spessore, concreto, dei luoghi. Non mi riferisco solo a film come La regola del gioco o La grande illusione, parlo anche di Boudu salvato dalle acque. Adoro quel film! E apprezzo anche Il delitto del Signor Lange. Rimanendo in tema di registi francesi, mi piace Robert Bresson, in particolare Il diario di un curato di campagna e Un condannato a morte è fuggito, perché si tratta di due film narrativi. Lo stesso discorso vale per Diario di un ladro. La profonda interiorità dei suoi film degli anni Cinquanta mi tocca molto. Infine, provo un grande affetto per François Truffaut, di cui ho appena rivisto la filmografia completa. La cosa che mi piace di più, dei tre cineasti succitati, è la loro umanità.
I cineasti americani mi suscitano un’emozione diversa. Apprezzo Howard Hawks: era probabilmente il più eclettico dei grandi maestri hollywoodiani. Riusciva ad affrontare ogni genere cinematografico, dal thriller alla commedia, dal western al musical, partendo sempre da delle sceneggiature straordinarie. Mi piacciono anche John Ford, Billy Wilder, George Cukor, William Wellman e William Wyler. I migliori anni della nostra vita, che ho visto di recente, è un capolavoro assoluto del cinema americano, e una delle più belle rievocazioni dell’America profonda. Vale la pena citare anche i comici del cinema muto: Chaplin, Keaton, Harold Lloyd, Harry Langdon…
Il cinema muto rappresenta una sorta di età dell’oro del cinema, celebrato da un’invenzione straordinaria. Il cinema muto non ha mai smesso di evolversi, sia dal punto di vista tecnologico che espressivo, fino a raggiungere un raffinamento estetico davvero incredibile. Alla fine del periodo muto, il cinema aveva raggiunto un livello di completezza e di perfezione insuperabili.
Novembre 2007