La farsa è una cosa seria: Sir John Mortimer traduttore di Feydeau
Traduction de Annamaria Martinolli
Il presente articolo è stato pubblicato, l’11 dicembre 2010, sul settimanale britannico The Spectator. L’autrice è Emily Mortimer. La traduzione è di Annamaria Martinolli.
Emily Mortimer, attrice inglese celebre per aver recitato in film quali Spiriti nelle tenebre (1996), Match Point (2005), Shutter Island (2010), Hugo Cabret (2011) e per il ruolo di MacKenzie McHale nella serie The Newsroom, racconta di quando Kenneth Tynan chiese a suo padre John di tradurre una farsa di Feydeau, e spiega come vorrebbe che fosse ancora qui a bere champagne con l’attuale troupe teatrale.
«Fu nella seconda metà degli anni Sessanta che ebbi l’opportunità di apprendere il vero significato del termine “farsa”», questo è quanto scritto da mio padre nel suo libro Clinging to the Wreckage. Era l’epoca in cui aveva iniziato a frequentare Ken Tynan. In famiglia, era solito raccontarci di un party post-elettorale a casa di Tynan dove, tra gli ospiti, si potevano contare anche alcune donne di cera, a grandezza naturale e vestite da suore, sedute nei gabinetti o adagiate su ogni letto in pose licenziose. Era la notte delle elezioni del 1966, quando il partito laburista di Harold Wilson tornò a vincere con larga maggioranza e quando, malgrado la forte crisi economica, la “società permissiva” era in pieno svolgimento.
Quando non era impegnato nell’organizzazione di party per suore modellate nella cera, il geniale Ken Tynan aiutava Laurence Olivier nella gestione della National Theatre Company. Le riunioni del consiglio di amministrazione si tenevano nelle baracche Nissen,[1] in un cantiere edile nella zona di South Bank, mentre Laurence Olivier consumava i suoi pasti a base di mele e champagne. In quel periodo, Tynan chiese a mio padre se era disposto a tradurre una farsa di Feydeau intitolata La pulce nell’orecchio (il cui titolo inglese sarebbe stato A Flea in Her Ear) per la National Theatre Company.
Mio padre rispose di non intendersene affatto di farse, finché non lesse La pulce nell’orecchio e scoprì che si trattava di una faccenda seria. Egli stesso dichiarò che le pièce di Feydeau erano delle vere e proprie tragedie interpretate ad alta velocità e che la trama dell’Otello, tanto per fare un esempio, con quel tipico oggetto di scena in stile Feydeau costituito dal fazzoletto che va perso (ne La pulce nell’orecchio si tratta di un paio di bretelle), sarebbe stata un’eccellente base per una farsa. In realtà, la farsa era qualcosa che si adattava perfettamente alle doti percettive di mio padre, sia come scrittore che come uomo. E a dire il vero, in materia, già ne sapeva molto di più di quanto pensasse quando accettò la proposta di Ken Tynan.
Le inclinazioni di Tynan erano troppo bizzarre per essere ritenute davvero farsesche, e il fatto che Laurence Olivier pranzasse con mele e champagne era un atteggiamento troppo eccentrico per paragonarlo a un qualsivoglia comportamento assunto da uno dei personaggi di Feydeau. Tuttavia, mio padre veniva dall’alta borghesia inglese. Suo padre era un avvocato – specializzato in testamenti e divorzi (un’occupazione in perfetto stile Feydeau) – e mio padre stesso, quando gli fu proposto di tradurre La pulce nell’orecchio, era stato per quasi mezzo secolo della sua vita un avvocato difensore. “Il mondo della farsa è per forza di cose quadrato, solido, decoroso e pienamente sicuro di sé; ed è proprio questo che permette di demolirlo”, sostiene mio padre nel suo libro.
La cosa buffa, e allo stesso tempo tragica, della farsa – e anche della vita – è il divario tra l’immagine che le persone “più dignitose e moraliste” vogliono dare di sé e la realtà, leggermente più ingarbugliata, del loro vero essere. Questo divario non è mai stato così ampio come in ambito legale. Nei tribunali penali, e in quelli che si occupano di cause di divorzio, la gretta malafede, gli amori illeciti, la stupidità e la testardaggine della borghesia vengono spettacolarmente rivelate ogni singolo giorno. E mio padre tornava a casa ogni sera dalle Inns of Court[2] con qualche nuova storia farsesca da raccontare.
Spesso ci parlava di una causa di divorzio, molto simile a una pièce di Feydeau, che vedeva coinvolto un distinto ammiraglio che si era perdutamente innamorato di una giovane pattinatrice di figura. La visione della sua amante, impegnata in alcune rotazioni sul ghiaccio, lo aveva talmente entusiasmato da indurlo a raggiungerla dimenticandosi di rimuovere i copri lama dei suoi pattini e facendogli quindi rompere entrambe le gambe. Quello stesso ammiraglio, confinato com’era in sedia a rotelle, si trovò in seguito a comparire innanzi al tribunale per testimoniare sullo stato pietoso del suo matrimonio. Quando gli fu chiesto com’erano i rapporti sessuali con la moglie da cui intendeva divorziare, l’invalido ammiraglio riassunse così la situazione: “Come nel cricket, siamo andati in battuta per un certo numero di anni e poi abbiamo chiuso la partita”. E ricordo ancora come mio padre utilizzasse questa frase per spiegare l’importanza della metafora sportiva nella vita inglese.
Ci fu un altro caso in cui mio padre si trovò a rappresentare un uomo accusato di aver assassinato la moglie nella vasca da bagno. Quando il giudice scoprì che l’uomo era sempre stato fatto sedere dal lato del rubinetto, mentre la moglie se ne stava a mollo al lato opposto in comoda beatitudine, ci vide più di una valida ragione per ridurre la pena a omicidio colposo. Il ricordo di queste storie rende più facile capire perché mio padre avesse una comprensione intuitiva del mondo di Georges Feydeau – un mondo che egli stesso riteneva molto più autenticamente legato ai fatti della vita come noi la conosciamo di quanto lo fossero le grandi tragedie.
Nella pièce La pulce nell’orecchio gli eufemismi riferiti all’impotenza – come “la partita chiusa” dell’ammiraglio – sono sparsi un po’ ovunque. Quello che viene ripetuto più spesso è “niente da dichiarare” (rien à déclarer). L’impotenza è un problema tipico dei personaggi maschili di Feydeau, che spesso sono alquanto attempati. In questo caso, il personaggio che non ha niente da dichiarare è il nostro eroe, il signor Chandebise, amministratore delegato della Boston Life Insurance Company di Parigi e province. Chandebise ha contratto, con sua somma gioia e anche per ragioni di tutela, un matrimonio di convenienza e trascorre alcune serate fuori a teatro. Sua moglie, Raymonde è anch’essa un’archetipica eroina di Feydeau: è una donna adulta ma, sotto certi aspetti, ancora ragazzina. Rimpiange molto le difficoltà di trovarsi un amante senza tradire il marito. Chandebise, dal canto suo, nutre ancora dell’invidia per i suoi amici scapoli e getta uno sguardo cauto, ma interessato, sugli squallidi hotel che incrocia lungo la strada che dall’ufficio lo riporta a casa. Le pièce di Feydeau, come ogni dramma che si rispetti, iniziano nell’istante in cui questi piccoli desideri si trasformano in allarmanti realtà.
Se la conoscenza dell’ambito giurisprudenziale fornì a mio padre le basi per capire il tono delle pièce di Feydeau, gli fornì anche quelle per comprendere la loro morale. In sostanza, in una farsa di Feydeau non c’è spazio per la moralità, e lo stesso vale per una corte di giustizia. La caratteristica principale di mio padre era di essere di un’indulgenza infinita – nei confronti di se stesso come di chiunque altro. E ciò che mi colpisce di più, nell’assistere di nuovo alla pièce, è il suo non giudicare assolutamente nessuno. In parte, questo è dovuto al fatto che è molto facile essere indulgenti con le persone quando non hanno il tempo di comportarsi così male come vorrebbero. Una volta innescata la serie di catastrofi, tutti i mariti, le mogli, le amanti e gli amanti si confondono così inestricabilmente gli uni con gli altri che diventa difficile sostenere se sono stati o meno fedeli al loro rispettivo partner, e ognuno di loro non ha nemmeno il tempo per saltare nel tanto agognato, e vagamente nominato, letto, impegnati come sono nel correre troppo veloce.
Di primo acchito, è difficile immaginare perché questa sorta di capriola teatrale, i cui protagonisti sono tipi della classe media che quasi vanno in pezzi, ottenne un successo così vasto, a Londra, nel 1966. Ma mi viene in mente che, forse, nei favolosi anni Sessanta, allestire una farsa francese era l’unico mezzo attraverso il quale dimostrarsi sovversivi. All’epoca, infatti, qualsiasi cosa tu facessi veniva interpretata come un prendere posizione. Nella Londra liberale e permissiva degli anni Sessanta, il solo avere dei rapporti sessuali si convertiva in una dichiarazione politica e morale – indipendentemente dal fatto di averli con un singolo partner, con più di uno o anche solo praticando l’autoerotismo. Le pièce di Feydeau, invece, restavano e sempre resteranno meravigliosamente e sfrenatamente apolitiche e amorali.
Di conseguenza, ritengo che La pulce nell’orecchio possieda ancora adesso una sua seppur minima pericolosità. Nel 2010, si sente ancora la necessità di prendere posizione su qualunque cosa – dalla propria idea di fedeltà coniugale, passando per le riforme economiche e il riscaldamento globale (un argomento che mio padre riteneva mortalmente noioso). Siamo tutti politicizzati e supponenti, e di conseguenza, essendolo tutti, ciò che ne risulta non è entusiasmante. Il momento entusiasmante è costituito dalle rare occasioni in cui una persona ammette di fronte agli altri, in modo disinvolto, irriducibile, non freudiano e leggermente sconcertato, lo stato di confusione della sua vita. Battute come quelle di Raymonde: “Che lo tradisca io, ancora passi, ma che mi tradisca lui, ah, poi no! questo supera il limite!” hanno ancora un che di eccitante.
Nel suo libro, mio padre dichiara quanto segue: “Le pièce di Georges Feydeau sono così meravigliosamente costruite che un altro drammaturgo può solo limitarsi a osservarle con lo stesso timore reverenziale con cui un insegnante di matematica alle prime armi si avvicina all’opera di Einstein”. Era sbalordito dalla precisione e perfezione della pièce, scritta nello stesso stile di uno spartito musicale, con indicazioni sceniche incredibilmente precise e qualcosa come duecentocinquanta entrate e uscite di scena. Mio padre sostenne anche che Feydeau si preoccupava soprattutto delle situazioni e che il numero dei giochi di parole era piuttosto ridotto. Di conseguenza, nel realizzare la traduzione, egli non provò alcun rimorso quando decise di inserirne alcuni scritti di suo pugno. Tuttavia, mio padre ammise che i suoi giochi non avrebbero mai suscitato un numero di risate pari a quello generato dalle accuratissime battute di Feydeau che includevano una serie di “Cosa?”, “Chi?”, o “Non posso crederci!” pronunciati al momento giusto. Ne consegue che la traduzione di mio padre non avrebbe potuto essere più brillante e più intrinseca al successo di quella prima produzione della National Theatre Company, e nemmeno più distinta nella sua provenienza. Egli stesso spiegò come la lesse e la rilesse più volte fino ad augurarsi che “non assomigliasse più a una traduzione, ma trasmettesse agli spettatori la sensazione di riuscire a capire il francese”.
Da bambino, mio padre fu portato a vedere l’Amleto interpretato da Laurence Olivier; diventato adulto, riusciva ancora a ricordare tutto di quella produzione: dalla forma della scenografia al sapore dei sandwich durante l’intervallo. Non avrebbe mai pensato che anni dopo si sarebbe seduto accanto a Laurence Olivier, nei prefabbricati sul retro della sede della National Theatre Company, a bere champagne, mangiare mele e a esporre le loro argomentazioni relative a ogni battuta della traduzione al fine di assicurarsi che le risate fossero collocate nel punto giusto. Mi disse che quei giorni furono per lui giorni felici. In realtà, credo che stentasse perfino a crederci.
Se oggi fosse ancora qui con noi, non ci crederebbe di nuovo. Vedere la sua traduzione di La pulce nell’orecchio tornare in produzione nel luogo da cui è partita, sul palcoscenico dell’Old Vic Theatre, lo avrebbe mandato in visibilio. Il culmine della felicità, per mio padre, era sedersi a leggere l’intero copione con gli attori impegnati a pronunciare le loro battute. Sarebbe stato magnifico, per lui, essere presente alle prime prove per vedere il suo grande amico Richard Eyre presiedere un gruppo di attori brillanti come Tom Hollander, Lisa Dillon, Jonathan Cake e il suo amatissimo figlioccio, Freddie Fox, intenti a leggere il copione a voce alta per la prima volta. Con un po’ di fortuna, e con l’indispensabile bottiglia di champagne nella borsa del copione sistemata sotto il tavolo e tutte le speranze e le aspettative di una produzione che sta per partire (e va detto che darei qualsiasi cosa per vedere il gioioso sguardo nei suoi occhi e sentire una di quelle sue sottili risate da ragazzina), mio padre sarebbe in parte compiaciuto all’idea di aver scritto qualcosa di divertente e in parte compiaciuto dell’intera situazione.
Informazioni aggiuntive
Note:
[1] Baracche a forma cilindrica di lamiera ondulata e pavimento in cemento.
[2] Organizzazioni professionali proprie del common law, esistenti sin dal XIV secolo, che uniscono al loro interno giudici e avvocati.