Le versioni cinematografiche del tema di Faust (II)
Traduction de Annamaria Martinolli
Il presente saggio breve è tratto dalla rivista Arbor: Ciencia, Pensamiento y Cultura, CLXXXVI 741 enero-febrero (2010), pp. 25-32. L’autrice è María Socorro Suárez Lafuente dell’Università di Oviedo. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Dopo aver analizzato in linea generale il tema di Faust e i primi adattamenti cinematografici che ne sono stati tratti, si esaminano qui di seguito i film di epoca contemporanea che si sono occupati dell’argomento e il romanzo di Thomas Mann Doktor Faustus.
Mephisto di Istvan Szabo
Nel 1981, Mephisto, di Istvan Szabo, riceve l’Oscar come Miglior Film Straniero. L’opera è basata sull’omonimo romanzo di Klaus Mann, pubblicato nel 1936, e ambientato durante l’ascesa al potere del nazismo in Germania; il libro suggerisce l’idea che la gloria nazista sia il risultato del patto faustiano e che, come tutti i patti diabolici degni di questo nome, le cose siano destinate a finire male. Il tema faustiano è prevalentemente germanico fin dal suo esordio, e il nazismo è un’epoca che ben si presta a dirimere il patto con il diavolo e la natura del Bene e del Male. Oltre ai romanzi dei Mann, padre e figlio, con relative pellicole che ne sono state tratte, molto numerose sono le opere artistiche che si sono focalizzate su questo periodo storico. Tra di esse vale la pena citare la serie televisiva Faustus, Faustus, Faustus, girata da Miklos Jancsó nel 1984, basata sul romanzo dell’ungherese Laszlo Gyurkó, Faustus doktor boldogságos pokoljárása, che prende avvio nel 1944 durante l’occupazione nazista dell’Ungheria.
Il Faust di Klaus Mann è un mediocre attore teatrale che brama il successo e desidera introdurre nel suo ambiente radicali cambiamenti: l’ambizione della sua vita è passare alla storia come attore e innovatore teatrale. Approfittando del fatto che la maggior parte dei suoi colleghi hanno lasciato il paese per non essere complici del nazismo o sono stati assassinati, Gründgens sigla un patto con le autorità e per breve tempo realizza il suo sogno. Si tratta di una pellicola di stampo postmoderno ricca di riferimenti intertestuali: prende spunto da un romanzo ma è anche ispirata alla vita di un attore dell’epoca. L’interprete del ruolo di Mefistofele, Klaus Maria Brandauer, recita Mefistofele nel Faust di Goethe in essa rappresentato, e lo fa seguendo le orme di Emil Janning, noto attore tedesco che interpretò Mefistofele nella versione del Faust di Murnau. Inoltre, Gründgens, il vero attore su cui si basa la pellicola, interpretò a sua volta Mefistofele nel Faust di Peter Gorski del 1960. Questo sovrapporsi di versioni faustiane e mefistofeliche, interpretate da attori di teatro e da attori e registi cinematografici, dimostra la complessità delle decisioni personali, dei limiti che distinguono il moralmente accettabile da quello che non lo è e della fascinazione che una tematica di questo tipo esercita su artisti e intellettuali.
Il romanzo Doktor Faustus di Thomas Mann
Uno dei romanzi fondamentali per il ciclo di cui ci stiamo occupando è Doktor Faustus di Thomas Mann, pubblicato nel 1947. Nel 1989, il regista Giacomo Manzini ne trae una serie tv in tre parti per la televisione tedesca che rispetta fedelmente il testo dell’autore; il risultato è una pellicola di una complessità pari a quella del romanzo che però ha il pregio di far conoscere il capolavoro di Mann a un pubblico più ampio. Secondo l’autore l’umanità ha concepito delle distinzioni ben definite e classificate perché è l’unico modo per non cadere nella follia e preservare l’equilibrio attraverso un ordine sul quale esercitare il proprio potere. Già René Clair, tuttavia, aveva intuito che in ognuno di noi si cela un Faust e un Mefistofele, un lato buono e un lato cattivo, capace di grandi gesti e delle peggiori depravazioni e in grado di creare l’arte e morire nella corruzione fisica. Thomas Mann fonde le due personalità in una sola e dà vita a un Faust/Mefistofele che non risulta né più terrificante né più sfortunato di quelli che l’arte aveva già partorito fino alla sua epoca.
Famiglia, amici, amore, patria e arte sono tutti destinati, prima o poi, a essere coperti dalla patina del male, e non possono nemmeno liberarci o proteggerci da alcunché; tuttavia, l’essere umano ha bisogno di scegliere un ambito che gli trasmetta quella sensazione di sicurezza necessaria per continuare a vivere. Così, Adrien Leverkühn pensa che l’amore e la musica siano le forze più potenti per le quali valga la pena vivere, ma riuscire a godere di entrambe non è un piacere alla portata dei mortali; di conseguenza, rinuncia al primo per raggiungere la maestria nella seconda. Nel suo patto di ventiquattro anni con il diavolo, in un atto sessuale liberatorio che gli toglie ansia e tensione e gli lascia intuire quale sarà la malattia che lo porterà alla tomba, Leverkühn sottoscrive la sua rinuncia alla fertilità fisica a favore della composizione musicale perché “l’arte non è più possibile senza il fuoco infernale”. Ogni volta che Leverkühn desidera rompere il patto per amore di una donna o di un cugino per il quale nutre un sentimento spontaneo e disinteressato, il demonio si vendica e li distrugge (qui il riferimento alla figura di Frankenstein è piuttosto evidente), e Leverkühn torna di nuovo solo con la sua composizione musicale, che si evolve alla stessa velocità della sua malattia: la sifilide. La musica che trasmette al mondo è fredda e matematica, priva di armonia; una musica che si rivela degna conseguenza di un patto con il diavolo e ben si addice alla Germania dell’epoca visto che quest’ultima aveva rinnegato la speranza e la fratellanza espressa dalla Nona sinfonia di Beethoven. Se il Faust di Goethe si salva quello di Mann firma la sua condanna perché i suoi tratti caratteriali sono più mefistofelici: è freddo, ironico, logico e sembra seminare il male ovunque passi, anche se dubita e soffre come Faust e non come Mefistofele, il che lo redime come persona e gli conferisce quella punta di debolezza indispensabile per diventare un eroe faustiano.
L’avvocato del diavolo di Taylor Hackford
Sul finire del XX secolo la tematica inizia a ruotare apertamente attorno al potere, la fama e il piacere, che in fondo sono le tentazioni del maligno contemporaneo. L’avvocato del diavolo (Taylor Hackford, 1997), con Al Pacino e Keanu Reeves, ne costituisce un buon esempio, visto che le armi della tentazione sono proprio le succitate. Il personaggio mefistofelico si chiama John Milton, riferimento letterario degno di nota considerato che fu proprio il poeta inglese John Milton a descrivere il Satana più interessante della storia della letteratura fino al XVII secolo convertendolo nel personaggio principale del Paradiso perduto. Il demonio del film si vanta di lasciare alle sue vittime completa libertà d’azione: “Io ho solo preparato la scena. I fili te li tiri da solo”; è l’avvocato a vendere la sua anima al diavolo a scadenza ogni volta che si trova a difendere un colpevole, tentato dal piacere di sconfiggere l’avversario, assuefacendosi all’adulazione passeggera e vedendo il suo conto corrente gonfiarsi fino a raggiungere cifre astronomiche e assurde che lo incatenano senza via di scampo alla ruota del denaro per il denaro. Milton/Satana/Mefistofele ostenta anche il fatto di essere l’ultimo degli umanisti, poiché egli crede negli uomini, Dio no; lui conosce l’umanità e sa bene che cadrà nelle trappole da lui tese, per quanto assurde possano essere. Dio, invece, dev’essere matto per pensare che la gente continuerà a credere in lui senza ricevere nulla in cambio. Il film segue l’estetica realista diffusa negli Stati Uniti alla fine del millennio: attori fisicamente attraenti, narrazione ben strutturata e sequenze facili da ricordare e concatenare, con un ritmo veloce che dispensa agli spettatori una dose equilibrata di sussulti giustificati dalla tematica faustiana.
Faust al femminile
Quando l’oggetto della tentazione è femmina, Mefistofele non propone solo la soddisfazione delle ambizioni moderne ma anche la perfezione fisica e l’eterna giovinezza. È questo il caso di La morte ti fa bella (Robert Zemeckis, 1992) e She-Devil – Lei, il Diavolo (Susan Seidelman, 1989). Trent’anni prima, nel 1957, José Luis Sáenz de Heredia diresse una versione femminile del mito, Faustina, con un cast prestigioso: María Félix, Fernando Rey e Fernando Fernán Gómez nel ruolo di un Mefistofele rachitico e fuori dal branco. Quando il demonio lo manda sulla Terra al servizio di Faustina, egli scopre che la donna è una sua ex fidanzata che lo tradì in gioventù; Mefistofele vede nella situazione l’occasione per vendicarsi, ma il film è impostato come una commedia, con complicazioni e colpi di scena, così a essere oggetto di scherno è sempre e solo lui. Fatto insolito per l’epoca e per questo tipo di cinema è che Faustina, malgrado il suo essere per definizione cattiva, scaltra, sexy e, soprattutto, egoista, si trasforma in una donna indipendente, attiva e sicura di sé, che inganna gli uomini sfruttando quello che desiderano di più: portarsela a letto. Si tratta indubbiamente di una commedia, ma stupisce per lo stampo femminista, con una donna che sa chi è, cosa vuole e come ottenerlo.
Rispetto agli altri Faust altruisti o interessati, che in punto di morte si rendono conto della fiducia mal riposta nel maligno, si può affermare che la Faustina di José Luis Sáenz de Heredia si muove di più nel campo di Mefistofele, usurpando il classico lavoro di regia e montaggio operato da quest’ultimo nel percorso faustiano. Non conosciamo le vere intenzioni del regista del film ma, nell’immaginario degli spettatori spagnoli, vedere Fernando Rey correre come un matto per impedire che la fidanzata gli scappi e Fernán Gómez completamente ignorato da una trionfante María Félix rappresenta un’inversione dei ruoli tradizionali che va ben oltre la risata facile di una commedia. Ad ogni modo, questa Faustina fuori dagli schemi costituisce un episodio isolato della cinematografia spagnola nell’ambito della quale si possono trovare altri Faust di un certo livello.
Faust 5.0 della Fura dels Baus
A disumanizzare completamente Faust e trasformarlo in un prigioniero della scienza, della tecnica e dell’informatica, ci penserà la Fura dels Baus con lo spettacolo Faust 5.0, uscito nel 1998 in versione cinematografica. Faust è adesso un uomo solo, solitario, intimorito, disumanizzato e fagocitato dal mondo che lo circonda. Quando gli appare Mefistofele, Faust si presenta dicendo: “Sono Faust, tuo simile” e il diavolo si mette a ridere pensando all’assurdità di una simile pretesa. Faust, come i suoi predecessori della narrativa classica, e come il suo omonimo nell’opera di Thomas Mann: “sente due anime che lottano nel petto”, il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, cosa che andrà a costituire l’unità dell’essere assoluto di questo film. Tuttavia, poiché nel mondo moderno grandi tematiche di questo tipo sono ignobili perché ritenute ridicole, la Luce non è altro che una flebile lampadina. La sola cosa che ancora resiste è il desiderio faustiano, perché, almeno in apparenza, non può essere sradicato dall’essere umano in quanto resta intatto fin dal Paradiso Terrestre: “Voglio essere come Lui”, “Voglio fermare il Tempo”, dichiara ancora Faust. Con la seconda affermazione il Faust 5.0 si riallaccia al Faust originale che, quattrocentoundici anni prima, già aveva interiorizzato come qualcosa di essenziale e oscuro il Tempus fugit che lo legava in modo irremissibile al diavolo.
La proposta de la Fura dels Baus è diabolica, parte dal principio goethiano “l’azione è vita” e di conseguenza converte con risolutezza la salvezza in “i piaceri sono azione”. Decisi a cambiare i presupposti del mito, i membri della compagnia lo attualizzano definitivamente e ci intimano di ammettere che l’atteggiamento della società moderna dimostra come “il piacere è violenza”. L’equazione che ne risulta è dunque la seguente: per conoscere (e questa conoscenza è stata rappresentata nel corso dei secoli dall’albero del Bene e del Male situato nel giardino dell’Eden) bisogna sentire, e per sentire bisogna esercitare la violenza; solo in quel momento acquisisci consapevolezza del tuo agire e ti senti vivo; non esiste vita al di fuori del ciclo della violenza. Mefistofele applica questa formula nello spettacolo televisivo Mephisto Show: dove i tuoi sogni diventano realtà durante il quale ci si interroga sulla domanda faustiana: “Per cosa saresti disposto a vendere l’anima al diavolo?” mettendo bene l’accento sulla seconda persona singolare. Faust 5.0, ambientato per la maggior parte in un contesto cupo, dai colori freddi e con oggetti di scena ridotti al minimo, si trasforma all’improvviso in un carnevale televisivo, pieno di luci, rumori, gente e movimento, dove il linguaggio si adegua alle azioni e ai desideri più bassi delle persone che si lanciano, felici e incoscienti, nell’abisso della distruzione come razza pensante. Mefistofele, grazie al suo spettacolo, si risparmia la fatica di ottenere la firma del patto. Il leitmotiv implicito dell’opera faustiana della Fura dels Baus è la didascalia di uno dei Capricci di Francisco Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Questo saggio breve sull’evoluzione del mito faustiano in ambito cinematografico fornisce un’idea indicativa sulle molteplici possibilità che derivano dal confronto tra Faust e Mefistofele, che in fondo rispecchiano solo il giudizio umano su ciò che è bene e ciò che è male. Sabine Doering, nel suo ripercorrere brevemente la storia del pensiero occidentale, trova Faust in ogni dove, sebbene con l’onnipresente limite che ha dato origine proprio al mito:
Faust può attirare l’attenzione della gente come Diogene, maledirla come Timone d’Atene, sperimentare la solitudine come il Manfred di Byron, scherzare con i suoi simili come Alcibiade, filosofeggiare come Socrate, Platone, Aristotele o come uno scolastico del medioevo, come Spinoza o Leibniz, o essere avido di piaceri come un uomo della nostra epoca; a volte è un pazzo, o un illuso teosofo, un pietista, un beato, un quacchero, un gesuita, un francescano, un Don Giovanni o un Casanova; può essere un signore della guerra, un poeta, un sognatore, un ingenuo, un uomo che lotta per la libertà, insomma, può essere qualsiasi cosa, tranne Dio (Sabine Doering, in Fraülein Faust. Weibliche Faustgestalten in der deutschen Literatur in Faust. Annäherung an einen Mythos, 1996, Frank Möbus (ed.). Wallstein Verlag, Göttingen, p. 116).