Scoprendo Joe Orton (II)
Translation by Annamaria Martinolli
La presente intervista è tratta da The Transatlantic Review, No 24 (Spring, 1967), pp. 93-100, Joseph F. McCrindle Foundation. L’autore è Giles Gordon. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Nella prima parte dell’intervista, Joe Orton si è soffermato soprattutto sulle sue opere (Il malloppo e Intrattenendo il Signor Sloane) e sul suo modo di fare e concepire il teatro. In questa seconda parte approfondisce il discorso parlando anche della sua vita privata, del periodo trascorso in prigione e del suo rapporto con i libri.
Giles Gordon (GG): Nella vostra professione di drammaturgo avete uno “scopo finale”?
Joe Orton (JO): Quello di scrivere una pièce bella quanto L’importanza di chiamarsi Ernesto.
GG: Vi piace Oscar Wilde?
JO: Sì. Le sue opere, non la sua vita, perché è stata spaventosa.
GG: Penso che ci sia una certa affinità tra le vostre opere e le sue, soprattutto di stile e di artificiosità di linguaggio. Mi chiedo se sia significativo il fatto che due sue pièces, in questo periodo, siano state riallestite a Londra con un cast di attori celebri.
JO: No. Penso sia il colpo di coda con cui spero si concludano una volta per tutte le reazioni in ambito teatrale. Dopo quella che è stata definita la polemica sulle pièces volgari, gli inglesi hanno un altro dei loro periodici impeti di moralità, e credo che stiamo assistendo alla fine di tutto questo. Dopo i noiosi riallestimenti delle opere di George Bernard Shaw, e quelli altrettanto noiosi delle opere di Oscar Wilde, spero che tutto si concluda con Il sottoscala di Charles Dyer e con il mio Malloppo.
GG: Entrambi questi testi sono altamente morali.
JO: Me lo auguro. Quando sul programma di sala ho dichiarato di essere un puritano, dicevo sul serio. Non ho la certezza che il termine puritano sia il più appropriato, ma credo che un drammaturgo possa scrivere solo da quel punto di vista. Non mi farebbe piacere vedere situazioni come quelle affrontate nel Sottoscala o nel Malloppo messe in scena da persone che… Non lo so… Forse è un po’ pomposa come affermazione… ma diciamo da persone che non hanno il mio talento e quello di Charles Dyer. Mi darebbe proprio fastidio vedere questi testi rappresentati al Whitehall Theatre (attuale Trafalgar Studios, N.d.T.), a causa del tipo di autori che operano in quel teatro. Perché le farse del Whitehall per me sono poca cosa.
GG: Assistendo al Malloppo ho avuto l’inquietante sensazione che il testo che stavate scrivendo vi sconvolgesse.
JO: No, non è affatto vero. È come quella donna che ha dichiarato che scrivo solo sulla polizia perché in prigione ho passato un periodo difficile. Assolutamente no. È stata un’esperienza bellissima e per niente al mondo avrei voluto perdermela. La prigione è una società curiosa, piramidale, e ho scoperto tutti i vantaggi di una struttura di questo tipo. Sembrava di stare nell’Antico Egitto. Non credo che da una situazione del genere si possa ricavare una pièce, come Il malloppo ad esempio, ma come stile di vita è molto confortevole. Non mi sarebbe piaciuto viverlo in eterno ma era molto interessante. E comunque non ho niente contro la polizia. È un male necessario.
GG: Posso chiedervi perché siete finito in prigione?
JO: Per colpa delle biblioteche e dei loro libri. Quello che mi fa incazzare dei bibliotecari è che quando vado in una grande biblioteca di Islington e chiedo Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon, mi rispondono che non ce l’hanno. Possono trovarmelo, ma sugli scaffali non ce l’hanno. Non è stato questo a generare il problema, ma è stato sintomatico dell’intera faccenda. Ero incazzato nel vedere tanti romanzi spazzatura e libri spazzatura. Mi ha ricordato una frase della Bibbia: “Al fare molti libri, non c’è fine”, ed è vero. Le biblioteche potrebbero anche non esistere; hanno un numero infinito di scaffali per libri spazzatura e a malapena uno per quelli belli.
GG: Ma in fondo non siete voi stesso a decidere quando un libro è bello o brutto? Non si tratta di gusti personali?
JO: Credo di sì. Ma si può sempre distinguere la spazzatura da ciò che non lo è. Ovviamente sto dicendo che il libro di Edward Gibbon è bello. Una volta ha raccontato un episodio molto divertente sui libri: “Quando gli arabi conquistarono Alessandria utilizzarono il contenuto della sua biblioteca come combustibile per i bagni”. Probabilmente Gibbon riteneva che i libri fossero più utili in questo modo che a scopo di lettura.
GG: Forse fu l’inizio dell’arte autodistruttiva. È vero che avete sfregiato alcune fotografie dei libri delle biblioteche?
JO: Sì, ho appiccicato la foto di una donna nuda sopra la foto dell’autrice di un libro di bon ton che credo fosse Lady Lewisham. Ma ne ho combinate anche altre; tutte cose molto strane. C’è stata quella faccenda della biografia di Sir Bernard Spilsbury contenente un’immagine con la didascalia: “I resti rinvenuti nella cantina al 23 di Rosedown Road”. L’immagine era terribilmente tetra e mostrava una grande quantità di terra; io ci ho appiccicato sopra quella del dipinto di Jacques Louis David intitolato La morte di Marat. Era in bianco e nero. Ho lasciato inalterata la didascalia in modo che rappresentasse davvero quello che affermava. Quest’immagine del corpo nella vasca da bagno suscitava una reazione forte in coloro che aprivano il libro.
Poi, ero solito scrivere falsi risvolti di copertina per i volumi editi dalla Victor Gollancz, perché avevo scoperto che i loro libri avevano risvolti gialli vuoti dove potevo battere a macchina i miei. I mie risvolti erano moderatamente osceni. Anche al processo li hanno definiti così. Quando ricollocavo il risvolto di plastica, nessuno avrebbe potuto affermare che il testo non fosse stampato. Dopo aver riportato di nascosto in biblioteca i libri adulterati, mi mettevo in un angolo e osservavo le persone mentre li leggevano. Era divertente, e interessante.
C’era una biografia dell’attrice Sybil Thorndike con una foto di lei rinchiusa in una cella nel ruolo dell’infermiera Edith Cavell. Ho ritagliato la didascalia di un’altra fotografia e l’ho incollata sotto la sua. La nuova didascalia diceva: “Durante la guerra ricevetti molte richieste bizzarre”.
Una delle cose curiose, durante il processo, fu il gesto che determinò la mia carcerazione – considerato molto oltraggioso – : avevo incollato la testa di una scimmia nel mezzo di una rosa sulla copertina di un libro intitolato Collins Book of Roses. Era una bellissima rosa gialla. Quello che avevo fatto fu considerato estremamente scellerato, e per questo, forse, avrebbero dovuto fustigarmi. Non lo fecero e si limitarono a sbattermi in galera per sei mesi.
GG: Non ho mai sentito di altre persone arrestate per aver sfregiato i libri di una biblioteca. Secondo voi il vostro caso è unico?
JO: Credo di sì. Ma ci sono molti altri casi come il mio in giro per il paese.
GG: Quanti anni avete?
JO: Trentatré.
GG: Com’è iniziata la vostra carriera?
JO: Ho ricevuto un’istruzione normale. Non ho mai fatto l’esame che a undici anni ti permette di scegliere l’orientamento dei tuoi studi. Ho lasciato la scuola a sedici anni, e sono stato assunto in un ufficio. Ho cambiato spesso lavoro perché mi licenziavano continuamente. A diciotto anni sono entrato alla Royal Academy of Dramatic Art, che ho frequentato per un paio d’anni. Poi ho fatto parte di una compagnia di repertorio – anche allora, non stimavo molto quel tipo di compagnie –.
Di recente, ho incontrato qualcuno che ho conosciuto proprio in quel contesto e mi ha detto che mi lamentavo sempre del fatto che anche lì il teatro faceva schifo. Eravamo nel 1953. Dopo quattro mesi ho rinunciato e in seguito sono tornato a Londra dove non facevo niente… lavoricchiavo… Ho trovato lavoro da Cadbury dove mi occupavo di scaricare merce nel magazzino; e scrivevo. All’epoca si trattava di romanzi. Certo, prima del 1956 era difficile pensare al testo di una pièce. In seguito, mi sono messo a scrivere sia pièces che romanzi. I romanzi sono stati tutti dei fallimenti e nessuna delle mie pièces è stata allestita. Ero molto occupato con quella faccenda dei libri delle biblioteche. Era come un lavoro a tempo pieno. Barcollavo fino a casa con i libri che prendevo in prestito o rubavo e li riportavo indietro un paio di volte al giorno. Dopo essere uscito di prigione, ho scritto Il ceffo sulle scale. La BBC l’ha accettata ma è stata trasmessa solo dopo la prima rappresentazione di Intrattenendo il Signor Sloane.
GG: State scrivendo una nuova pièce?
JO: Ho appena finito un atto unico (si riferisce a Funeral Games, N.d.T.). Per il momento mi sono preso una pausa per rileggere il tutto.
GG: Il teatro vi dà da vivere?
JO: Certo che sì! Quando sono iniziate le rappresentazioni di Intrattenendo il Signor Sloane ero sotto l’assistenza sanitaria nazionale. Stavano per spedirmi in un centro di riabilitazione, io gli ho spiegato che stavano allestendo una mia pièce e loro mi hanno concesso una dilazione di un paio di mesi. Durante l’allestimento del testo, mi è arrivata una nota che diceva: “Abbiamo visto che la vostra pièce è attualmente in scena, quindi riteniamo che non avrete più bisogno dell’assistenza nazionale”. Il che è un’assurdità visto che avevo ricevuto un anticipo di sole cento sterline. Ad ogni modo, la pièce andò talmente bene che non ebbi più bisogno di lavorare ad altro né tanto meno di servirmi dell’assistenza nazionale. Non ero capace di lavorare a nient’altro. Sono incompetente in qualsiasi settore, so solo scrivere. E per scrivere una pièce mi ci vuole molto tempo. L’atto unico che ho appena finito – a metà novembre – l’ho iniziato a luglio. Non è una cosa che esce dalla mia testa con la rapidità con cui si potrebbe pensare. Ne ho scritte almeno cinque versioni. Di solito, opero molti tagli perché secondo me è quello che conta. Moltissime pièces ci guadagnerebbero a subire dei tagli, il problema è che c’è ben poco da tagliare. Se non hai una storia e un intreccio, cosa tagli? Io faccio tutto da solo, poi rifinisco il testo ed eventualmente lo riscrivo.