Eduardo Scarpetta e le aspre critiche dei francesi nei confronti delle sue riduzioni
Translation by Annamaria Martinolli
Il presente frammento è tratto dal volume Pulcinella & C. – Le théâtre napolitain, ouvrage illustré de 50 photogravures, Librairie Paul Ollendorff, Paris, 1901, pp. 279-290. L’autore è Henry Lyonnet. La traduzione è di Annamaria Martinolli.
Nello stesso istante in cui riunivo questi miei appunti, l’instancabile Eduardo Scarpetta, che all’età di trent’anni ci aveva consegnato le sue Memorie, stava pensando di offrircene una seconda parte scritta diciassette anni dopo. Gli auguro di tutto cuore di tramandarcene molte altre ancora! Queste nuove Memorie, molto voluminose nelle loro cinquecentoventotto pagine, recano il titolo, abbastanza appropriato, Dal San Carlino al Fiorentini e hanno il solo scopo di illustrarci il percorso compiuto dal momento in cui Scarpetta ha assunto la direzione del San Carlino, poi demolito, fino al suo regno attuale al Teatro dei Fiorentini. Devo ammetterlo: è la più grande autoglorificazione che sia mai stata immaginata! È ingenua incoscienza allo stato puro! Al suo confronto I commentarii di Giulio Cesare e Il memoriale di Sant’Elena non sono niente. Dopo la pubblicazione delle nuove Memorie di Scarpetta non resta che arrendersi di fronte all’impossibilità di scrivere qualcosa di solo lontanamente eguagliabile.
I ricordi relativi ai precedenti autori e attori del San Carlino, che in parte ci erano già stati trasmessi da Salvatore Di Giacomo nel suo Cronaca del Teatro San Carlino, sono interessanti, ma, quasi a volersene fin da subito scusare, l’autore delle nuove Memorie ci lascia sottintendere che Filippo Cammarano, dal suo punto di vista, fu solo un “modesto riduttore” delle commedie goldoniane. Povero Scarpetta! Il pensiero delle sue “riduzioni” lo perseguita ovunque. Il volume contiene alcune piacevoli descrizioni dello “zio” Pasquale Altavilla, di Antonio Petito, del “buffo” Pasquale De Angelis e del “guappo” Raffaele Di Napoli. Il lettore assiste alle gelosie intestine, alle rivalità che si sviluppano dietro le quinte, ma si intuisce subito che si tratta, nello specifico, solo di gente comune e di poco conto. L’ora è vicina; si aspetta la venuta del messia; già si scorge la sua ombra e tutti lo incitano: è lui, e ce n’è solo per lui; eccolo, folgorante e splendente, inchiniamoci al suo cospetto.
Ma il passaggio del libro dove la misura è veramente colma è quello in cui Scarpetta, sempre per discolparsi, dimostra al lettore che il merito del successo delle sue pièces non va ai veri autori dei testi ma al “riduttore”. La definizione che egli stesso fornisce del termine “riduzione” è estremamente ridicola: “Ridurre significa spesso: ricostruire, rifare. E per ricostruire, rifare ed ottenere un successo è indispensabile, prima, di accingersi all’opera, rivivere tutta intera la pochade, che si vuole ridurre, nell’ambiente del teatro pel quale si scrive”.
No, scommettiamo che adesso salta fuori che i veri autori avevano torto e che non ci hanno mai capito nulla!
“Come volete che il pubblico intenda tutto lo spirito squisito e la satirica comicità di certi dialoghi francesi, se non gli mostrate rifatti quel dialogo e quelle scene così come sarebbero accaduti in una delle nostre case e delle nostre vie?
Senza darmi l’aria di avere scoperta l’America, io posso dire che debbo a questo intuito di assimilazione e di adattamento i miei maggiori successi.
E come, infatti, spiegare in altro modo i trionfi ottenuti da alcune mie riduzioni sulle stesse commedie originali? Ho detto trionfi, e non saprei trovare altra parola pei successi riportati dal mio Tetillo, dal mio Romanzo d’un farmacista povero e dalla mia Santarella sulle stesse pochades originali, dalle quali furono tratti: cioè Bébé, I trenta milioni di Sir Gladiator e Mademoiselle Nitouche”.
Avete afferrato bene il concetto? È solo grazie alla venuta del Signor Scarpetta che il pubblico si è potuto gustare: Bébé, I trenta milioni di Sir Gladiator o Mademoiselle Nitouche. Tutto il successo è da attribuire al “riduttore”, e per quanto riguarda le altre compagnie italiane che mettono in scena questo repertorio, l’autore non ci mette molto a stroncarle: “Non sono i bravi attori che mancano alle compagnie italiane, né vi manca quell’abate mento (l’affiatamento) che tanto contribuisce alla buona riuscita di ogni lavoro teatrale, in ispecie se di genere brillante; ma spesso manca in quelle compagnie il capo comico che supplisca al buon riduttore o traduttore della pochade che si rappresenta”.
Avete inteso, o Novelli, Ferravilla, Leigheb, Benini e voi tutti? Il vostro mestiere non lo conoscete affatto, e il Signor Scarpetta ve lo insegnerà.
A che scopo proseguire nelle citazioni? Lasciamo da parte il Signor Scarpetta, che potrebbe accontentarsi di essere un bravo attore e credere in buona fede che le pièces che riduce gli appartengano; non distraiamolo dalla contemplazione di se stesso, e parliamo rapidamente delle rappresentazioni a cui abbiamo assistito, onde evitare di essere accusati, come il mio stimato collega Verdinois che si è permesso di criticare il semidio, di non aver visto il teatro dell’autore! Tuttavia, tenuto conto del fatto che queste rappresentazioni non offrivano alcun interesse artistico, non perderò tempo nel descrivervi dei testi che sono già stati messi in scena ovunque.
Per cinque mesi e mezzo mi sono trattenuto a Napoli nel tentativo di scoprire qualcosa di nuovo o “riformato” al Teatro dei Fiorentini, ma invano.
Sono andato a vedere Nu cane bastardo, commedia in tre atti, per la riduzione di Eduardo Scarpetta, e invece ho assistito a una traduzione più o meno letterale del Voyage de Berluron.
Sono andato a vedere Duje Chiapparielle, commedia in tre atti di Eduardo Scarpetta, ed è stato come rivedere, con piacere, Contrôleur des wagons-lits.
Sono andato a vedere La pupa mobile, commedia in tre atti di Eduardo Scarpetta, e mi sono accorto che si trattava della rivisitazione in chiave comica dell’operetta La Poupée di Audran.
Ho rifuggito i titoli che richiamavano la Francia e ho cercato di rituffarmi in un repertorio veramente italiano; così, sono andato a vedere Na figliola romantica e nu miedeco curiuso, commedia in tre atti, in versi, di Eduardo Scarpetta. Questa volta mi sono illuso di aver fatto una scoperta, ma mi hanno spiegato che era la riduzione, da cinque a tre atti, di La donna romantica e il medico omeopatico di Riccardo Castelvecchio.
Ho aspettato di imbattermi in un manifesto che non menzionasse nemmeno più la parola “riduzione” tanta era la mia voglia di vedere qualcosa di nuovo e di poter giudicare, finalmente, lo Scarpetta autore, e così ho preso un biglietto per Na paglia de Firenze, commedia in quattro atti di Eduardo Scarpetta.
Ahimè! Tre volte ahimè! Questa “paglia de Firenze” non era nient’altro che il nostro Chapeau de paille d’Italie!
…Quantum mutatus ab illo!
Povero cappello! Lo conoscete tutti il leggendario vaudeville di Labiche? In questo caso sicuramente saprete che questa pièce, capolavoro del suo genere, funziona solo grazie al movimento, quel movimento speciale che i nostri attori di oggi hanno pure perso. Infatti, se ci si ferma un solo istante a riflettere, l’effetto è perduto per sempre! I cinque minuscoli atti che compongono il vaudeville devono essere “bruciati” in meno di due ore. Scarpetta ne ha fatto una commedia: primo errore. E così come non ne ha compreso il movimento, non ne ha colto nemmeno gli aspetti caratteristici: il vecchio sordo che, per cinque atti, porta la scatola la cui sola apertura basterebbe a svelare l’enigma; Nonancourt che va a spasso con il suo mirto; la sposa con uno spillo nella schiena. Qui, non si assiste a nulla di tutto questo: il sordo posa la scatola a terra fin dal primo atto, Nonancourt (Alonzo) lascia il mirto a casa, e via discorrendo. Infine, il corteo nuziale che sfila, e tutte quelle persone vestite a festa che si spingono in coda creando una calca, di tutto questo… non c’è traccia, e non c’è traccia neanche del pediluvio di Beaupertuis e della scena dei letti; la pièce si conclude con una serata a casa della Contessa.
“Ridurre significa spesso: ricostruire, rifare”, ci dice Scarpetta nelle sue Memorie. Io credo che la parola disfare sia più adatta. Tuttavia, nel vedere, mio malgrado, quel pubblico ingenuo e bonario divertirsi nonostante tutto, mi è venuto da pensare: “Bisogna proprio che una pièce come questa sia tenace per riuscire a produrre ancora un qualche effetto dopo essere stata mutilata, spogliata e massacrata!”. […]
Il Signor Scarpetta, che ci tiene molto a essere definito autore (riecco la storia del violino d’Ingres[1]), giura e spergiura (a pagina quattrocentocinquantacinque delle sue Nuove memorie) di aver scritto ventinove commedie originali, di cui cita i titoli. Io non ho alcuna ragione per dubitarne, ma, ogni volta che mi sono recato al suo teatro, mi sono imbattutto in una delle sue riduzioni. Di conseguenza, poiché sono arrivato alla conclusione che il teatro napoletano che voglio studiare non ha niente a che fare con tutto questo, spero che nessuno me ne vorrà se me ne andrò a passare le serate da “Pulcinella”.
Informazioni aggiuntive
Note:
[1] Il motto “il violino d’Ingres” si riferisce al fatto che il pittore Jean Auguste Dominique Ingres era anche un eccellente suonatore di violino. Di conseguenza, significa avere una passione a tal punto coltivata da poter sostituire il lavoro principale.