Il teatro cileno contemporaneo e le sue radici storiche
Traduction de Annamaria Martinolli
Primavera con un angolo rotto,
per un’estate con il cuore caldo,
sarà autunno con la malinconia del tempo che patiamo,
sarà primavera quando sbocceranno i nostri amori
e sarà anche un inverno,
come per voi, ma non un inverno qualsiasi,
bensì dalla testa fredda e l’animo bollente,
per sapere cosa fare,
cosa dire e dove mettere le mani,
quando arriverà la stagione della Libertà.
ICTUS, 1984
Il presente saggio breve è stato pubblicato sulla rivista Arrabal, Nº 7-8, 2010 (Ejemplar dedicado a: Teatro Hispanoamericano), con il titolo Incomunicados: teatro y reflexión en Chile, pagg. 295-302. L’autrice è Macarena Salmerón González-Serna. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Introduzione
Il presente articolo vuole essere un approccio allo studio del teatro cileno contemporaneo attraverso tre dei suoi rappresentanti più celebri: Egon Wolff, Jorge Díaz e Marco Antonio de la Parra. Un breve viaggio attraverso la storia più recente del paese ci condurrà dai testi scritti sotto la dittatura di Pinochet alle ultime proposte drammaturgiche, nelle quali ci sembra di scorgere un legame con gli anni bui. Il microcosmo metaforico, il gioco dialettico dell’incomunicabilità e la demistificazione della storia, appaiono come alternative sceniche per la riflessione profonda di un periodo con ferite ancora non rimarginate.
Nell’abbordare questa tematica, non va dimenticato che è bene risultino chiare alcune questioni relative al problema sollevato dal testo drammaturgico dal punto di vista teorico. La principale difficoltà consiste nel modo di affrontare questo tipo di testi a causa della loro dualità. Da un lato, si possono ritenere scritti letterari, suscettibili di analisi in base ai presupposti di questa disciplina, e, dall’altro, sono anche spettacolo, messinscena di un testo che assume nuovi significati attraverso la rappresentazione, che utilizza linguaggi in esso non presenti e che, di conseguenza, va trattato in base a codici diversi. Se a questo si aggiunge che, nel nostro caso, parliamo di teatro ispanoamericano, lo studio si complica ulteriormente, poiché, volendo essere rigorosi, bisognerà ricorrere a un ragionamento critico specifico così come preteso, negli ultimi anni, da numerosi specialisti. Tale ragionamento deve combattere l’emarginazione di cui sono stati oggetto i testi prodotti in America latina da parte della dottrina egemonica europea, che non esita a relegare in un angolo tutto ciò che non si adegua ai suoi codici estetici e ideologici. Considerando inoltre che il teatro è già di suo un genere emarginato, si deduce che il teatro cileno contemporaneo – ma lo stesso discorso vale ad esempio anche per quello costaricano o venezuelano – non ha ricevuto la meritata attenzione dallo sguardo occidentale dominante.
La scelta di questa tematica per il presente studio si inserisce in quella riscoperta di testi e figure, collegate al teatro ispanoamericano, che negli ultimi anni si sta timidamente portando a compimento in Europa. In questo modo, si procede con il pagamento del debito che la società ha nei confronti della letteratura, come spiegato da Karl Kohut quando afferma che “anche se l’oblio (o il tentativo di oblio) caratterizzasse la società in generale, la letteratura assumerebbe il ruolo della memoria”[1].
Contesto storico
Se facciamo riferimento al contesto sociopolitico del Cile contemporaneo è inevitabile collocare gli anni della dittatura del Generale Augusto Pinochet nell’occhio del ciclone. A partire dal colpo di stato del 1973, l’intera produzione letteraria cilena fu obbligata a riadattarsi a circostanze sconosciute e particolarmente sfavorevoli per la cultura, la libertà di espressione e il pensiero critico. La drammaturgia, tuttavia, riuscì a schivare la maggior parte degli assalti del regime per porre fine al dissenso in ambito artistico. Come dichiarato da María de la Luz Hurtado, è peculiare il fatto che esistesse a malapena una censura esplicita per il teatro e che quest’ultimo potesse “attraverso diversi meccanismi, accompagnare ognuno dei processi politico-sociali durante la dittatura”[2]. È vero, però, che gli stessi drammaturghi evitarono riferimenti diretti e che, soprattutto nei primi anni, utilizzarono un’autocensura preventiva, ma questo non impedì che nel Cile di Pinochet si scrivessero testi del tutto sovversivi che mettevano in discussione il regime e denunciavano, attraverso processi metaforici, le ingiustizie e le atrocità che avvenivano nel paese. L’abbondanza di sottotesti nelle produzioni di quegli anni, le opere dall’apparenza evasiva e le commedie ingenuamente ritenute frivole evidenziano come la letteratura possa essere coinvolta con la realtà senza per questo restarle aderente, così come brillantemente proposto da Julio Cortázar a proposito delle critiche ricevute da Óscar Collazos:
[…] Si insiste a scambiare per un “divorzio dalla realtà” quello che in scrittori come il sottoscritto è proprio la ricerca di una fusione più profonda del verbo con tutte le sue possibili correlazioni […]. La vera realtà è molto più del “contesto socio-storico e politico”, la realtà […] è l’uomo e gli uomini […]. Per questo una letteratura meritevole del suo nome incide sull’uomo da tutte le angolazioni […][3].
Si tratta dunque di concepire una letteratura che “avendo piena consapevolezza del contesto socioculturale e politico, si origini tuttavia a livelli creativi in cui l’irreale, il mitico, il metafisico (in senso letterale) si traducono in un’opera non meno responsabile, non meno inserita nella realtà latinoamericana e, soprattutto, non meno valida e arricchente di quella più direttamente connessa con il tanto abusato contesto della realtà storica”[4].
Gli autori qui selezionati ci servono a dimostrare come si possa criticare aspramente un regime autoritario con devastanti conseguenze sulla vita della società che lo subisce tramite strategie inizialmente lontane da quel contesto: la distruzione della comunicazione tra gli esseri umani o la presentazione di eventi quotidiani, innocui, sul posto di lavoro, in ambito familiare o in strada. Egon Wolff, Jorge Díaz e Marco Antonio de la Parra concordano nel trattare queste tematiche, e riteniamo lo facciano per rispecchiare su piccola scala quanto stava avvenendo nel Cile durante e dopo la dittatura. Testi come La secreta obscenidad de cada día (La segreta oscenità quotidiana), Lo crudo, lo cocido, lo podrido (Il crudo, il cotto, il marcio), Ayer, sin ir más lejos (Ieri, senza andare oltre), El cepillo de dientes (Lo spazzolino da denti), Álamos en la azotea (Pioppi sul tetto) o Flores de papel (Fiori di carta), offrono una scarna visione delle conseguenze della repressione sulla vita quotidiana dei cileni, senza mai alludere esplicitamente al regime. Si tratta, come afferma Ana María Foxley basandosi su un approccio di Gregory Cohen, dell’idea secondo la quale “un teatro rivoluzionario non è necessariamente quello che inveisce a destra e a manca contro un ordine stabilito, ma quello che consegue la rottura a partire da un lavoro attento sulle forme […] È la materialità stessa del teatro a dover essere ripensata, non solo l’ideologia”[5]. I drammaturghi fanno proprio quanto sopra descritto: ripensano le possibilità offertegli dalla scena per descrivere fino a che punto la dittatura determinò un cambiamento repentino in tutti gli aspetti della società. Al di là delle evidenti conseguenze, note a tutti – torture, sparizioni, omicidi, coercizione politica, frode economica o esilio -, in queste opere si approfondiscono gli effetti negativi che l’intero processo ha avuto all’interno, in seno alla famiglia, nei rapporti di coppia, in ambito lavorativo ecc… L’incomunicabilità, per fare un esempio, appare come il risultato di questo periodo buio, e agisce come una molla sul lettore/spettatore teatrale che, a partire da essa, ritorna sui suoi passi e rivive, attraverso la conseguenza, la causa che l’ha determinata, facendosi quasi inconsciamente carico del suo passato per legarlo indissolubilmente al presente. Non si tratta più di rispecchiare la catastrofe umanitaria, gli attentati contro la dignità delle persone, ma di andare oltre, come spiegato dal drammaturgo Sergio Vodanovic:
“Un teatro che riveli il vero Cile, i conflitti che bisogna affrontare nell’attuale congiuntura, i sentimenti profondi, le frustrazioni e le speranze…”[6].
In questo senso, i testi cileni saranno oggetto di un’evoluzione relativa al modo di affrontare la tematica dal punto di vista drammaturgico, per cui si rende necessaria una breve periodizzazione che collochi le opere e i meccanismi utilizzati nell’arco di tempo compreso tra gli anni immediati del golpe e l’epoca attuale. Partendo da quanto asserito da Fernando del Toro[7], possiamo parlare innanzitutto di una fase precedente al 1973, in cui l’attività teatrale era connessa alle università e veniva promossa dallo stato. Nasce la cosiddetta Generazione del ’50 – in cui possiamo inquadrare Egon Wolff – , che coltiva un realismo psicologico destinato a diventare più critico a mano a mano che il clima sociale e politico si fa più teso. Allo stesso modo, in questi anni precedenti il golpe, spicca la comparsa di compagnie indipendenti che rivestiranno un ruolo importante grazie al desiderio di rinnovamento e alle proposte più audaci di quelle uscite dalle scuole universitarie. Purtroppo, l’intero apparato culturale creato attorno al teatro sarà castrato dal processo di polarizzazione politica conclusosi con il golpe di Pinochet nel 1973. Il nuovo regime eliminerà il contesto precedente a favore di un teatro importato dall’estero a scopo unicamente diversivo, in grado di promuovere l’immagine falsa, e pericolosa, di una società prospera, fondata sulle buone abitudini, l’ordine e il rispetto della morale. Per fortuna, una simile situazione durerà poco, poiché i drammaturghi, gli attori e le altre figure del mondo teatrale, dopo aver superato questo primo periodo di inevitabile silenzio causato dal golpe, sapranno far rinascere la macchina artistica dalle sue ceneri e, pian piano, troveranno il modo di farsi posto nella società. Tra il 1977 e il 1980, come specificato da Del Toro, nasce il contesto che permetterà di creare un nuovo orizzonte di aspettativa omologo a quello del pubblico, facendo coincidere entrambe le visioni dello spettacolo e liberandosi, finalmente, dall’aspettativa artificiale che il regime aveva voluto imporre.
Lo spazio teatrale sostituisce quello politico e, in forma codificata, informa gli spettatori sulla realtà nazionale. Un ottimo esempio di testo a chiave ma facilmente decifrabile è Lo crudo, lo cocido y lo podrido di Marco Antonio de la Parra, rappresentato nel 1978 al Teatro dell’Università Cattolica del Cile e subito vietato dalle autorità per ragioni più che evidenti. Tuttavia, il testo fu premiato all’estero e alla fine poté essere rappresentato in Cile da una compagnia indipendente. Da quel momento in poi, lo spazio teatrale inizierà a diventare il punto di incontro e di espressione che i cileni tanto bramavano. Esiste una commovente complicità tra i drammaturghi, gli attori e i registi nei confronti del pubblico, che si recherà in massa a ogni rappresentazione, poiché “il teatro parla allo spazio sociale dello spettatore. Più il sistema nega la realtà, più il potere del discorso teatrale si estende”[8]. Si tratta di testi che non mirano a risvegliare la coscienza della società, ma a servirle da sfogo, privata com’era di ogni capacità di espressione. A partire dal 1980, però, questa realtà teatrale torna di nuovo a modificarsi dividendosi per lo più in due linee di pensiero: da un lato, la critica diretta al sistema, già in declino; dall’altro, la riflessione accurata dei fatti e la ricerca di spiegazioni relative all’accaduto.
Egon Wolff
Dopo aver fissato la cronologia sarà facile collocare, se non i drammaturghi – dalla ricca e variegata produzione –, almeno alcuni testi concreti all’interno dei diversi periodi. Nell’epoca subito precedente alla dittatura troviamo le opere di Egon Wolff, Los invasores (Gli invasori, 1963) e Flores de papel (1970), entrambi incentrati sul problema dell’ingiusta disparità sociale tra ricchi e poveri. Nei due testi, Wolff ipotizza una ribellione della classe meno abbiente che riesce a irrompere nel mondo agiato della borghesia minacciando l’ordine stabilito. Si tratta di una presa di coscienza di fronte alla tangibile realtà dell’epoca; la critica, però, non si concentra sul potere politico ma è rivolta alla borghesia, quindi agli stessi destinatari della rappresentazione teatrale che si vedevano ritratti sul palcoscenico con i loro vizi, gli assurdi pregiudizi e la mancanza di solidarietà. In questo modo, Wolff vuole aprire gli occhi alla classe benestante sul fatto che la sua stabilità è precaria, e che in qualsiasi momento può verificarsi un ribaltamento della situazione[9].
Jorge Díaz
Sulla stessa falsariga si colloca El lugar donde mueren los mamíferos (Il posto dove muoiono i mammiferi, 1963) di Jorge Díaz, uno dei più prolifici drammaturghi del teatro cileno contemporaneo. Il caso specifico di Díaz è però complesso, poiché i suoi testi non si circoscrivono unicamente a questo primo periodo. In opere come quella citata, domina la trattazione delle disparità sociali, ma in questo caso si punta nettamente il dito contro un colpevole più identificato con il potere. Díaz attacca la borghesia ma non la separa dalle istituzioni e, in ultima istanza, dal governo[10]. Il suo percorso di scrittore non è lineare, ma si tratta piuttosto di una spirale ascendente che ruota attorno ad alcune tematiche principali: l’amore-disamore, l’ingiustizia sociale, la violenza, l’esilio… E a fare da collante tra gli argomenti è uno strumento presente nella maggior parte delle sue creazioni: il gioco linguistico. Jorge Díaz ha una visione acre della società contemporanea ma esprime il suo dissenso verso atteggiamenti e forme culturali del mondo attraverso meccanismi tangenziali. La sua non è una critica esplicita e diretta, ma deducibile grazie a una lettura attenta dei suoi testi o se si assiste a una rappresentazione degli stessi con l’atteggiamento di chi si aspetta qualunque cosa e non si mette comodo in una posizione interpretativa preliminare. Si tratta di un nuovo modo di intendere sia il testo che la rappresentazione, sfruttando le possibilità che entrambi gli aspetti del fenomeno teatrale gli offrono, il che costituisce un fatto, se non straordinario, almeno atipico in autori della sua età e formazione – è nato nel 1930 –. Jorge Díaz va dunque identificato con l’affermazione di Alfonso de Toro: “il nuovo è insito nella rivoluzione e nel sovvertimento del linguaggio, della scenografia, del ruolo dell’attore, ovvero, del concetto di teatro”[11].
Díaz distrugge il linguaggio e lo ricompone, giocando con l’ironia, il doppio senso, la connotazione e la fusione dei registri in situazioni, a priori, inadeguate. Disarticolando la classica forma comunicativa e la dialettica attesa nel contesto in cui colloca i suoi personaggi, mira a esemplificare come l’atto comunicativo, nella società contemporanea, possa trasformarsi in un processo pieno di colpi di scena che danno adito a malintesi, inganni e situazioni di straniamento: è l’incomunicabilità della comunicazione, interessante costante del suo teatro. Con questo meccanismo Díaz mette in discussione l’essenza stessa del teatro come veicolo fondato sul linguaggio, dimostrando che sulla scena ci sono altre forme comunicative oltre a quella verbale. In questo senso, si colloca anche all’interno dei gruppi di teatro indipendente sorti negli anni Sessanta – in concreto l’ICTUS – di cui abbiamo parlato in precedenza. Le situazioni di rottura della quotidianità che ci presenta hanno lo scopo di spiazzare lo spettatore, avvisarlo che sta succedendo qualcosa, minarne le certezze affinché apra gli occhi su quella che crede la realtà “reale” e percepisca che si tratta solo di un’altra elaborazione culturale. Il suo è un teatro che si preoccupa soprattutto di non rispettare quei sistemi linguistici che stanno perdendo forza espressiva a causa di un uso piatto e ripetitivo, come si può notare nel seguente frammento di El cepillo de dientes, la sua opera di maggior successo nel paese d’origine:
Lei: Oh, no, no, no. Non si intonerebbe con noi. I nostri mobili sono della linea danese.
Lui: I tuoi mobili, forse. I miei sono di stile.
Lei: Arcaico!
Lui: Antisettica!
Lei: Morboso!
Lui: Scandinava! […]
Lei: Sì?…
Lui: Credo che mi sto innamorando.
Lei: Oh, poveretto.
Lui: Credimi, ho cercato di resistere fino all’’ultimo.
Lei: E chi sarebbe la sgualdrina?
Lui: Non chiamarla così!
Lei: Perché? Di chi ti stai innamorando?
Lui: Di te.
Lei: Che sciocchezza!
Lui: Non è una sciocchezza. Quando camminiamo a braccetto per strada, ti guardo di sottecchi. È una colossale stupidaggine, ma mi piace molto.
Lei: Pervertito! Ma non ti vergogni a innamorarti di tua moglie? […][12]
Senza abbandonare del tutto questa passione per il linguaggio, Díaz, dopo essersi autoesiliato in Spagna, dedicherà alcuni suoi testi all’aspra critica nei confronti della dittatura di Pinochet. Testi come Toda esta larga noche (Quest’intera lunga notte) o Dicen que la distancia es el olvido (Dicono che la lontananza faccia dimenticare) lo inseriscono in quella fase di critica diretta al sistema autoritario e sono documenti agghiaccianti sulle torture e lo sradicamento subiti da migliaia di suoi compatrioti durante quegli anni. Infine, e sempre seguendo l’approssimativa periodizzazione iniziale, Jorge Díaz avrà qualcosa da dire anche durante la fase di riflessione e individuazione di punti deboli verificatasi in Cile quando il regime giungeva al suo termine. È di questo periodo l’opera Ayer, sin ir más lejos, testo che mette in scena gli ultimi anni del franchismo (con il conseguente parallelismo con la dittatura cilena), gli inizi della transizione e la devastazione in cui furono lasciate le famiglie di entrambe le parti. Dopo la crisi politica, economica e sociale, l’ordine si ristabilisce, la libertà sembra riaffacciarsi, ma gli uomini e le donne che furono travolti in quel mare di violenza e repressione si trascinano dietro una zavorra più difficile da abbandonare: la crisi personale. Attraverso tematiche quali le frustrazioni della coppia, i conflitti generazionali in ambito familiare, le allusioni a progetti abortiti, gli amici che non ritornano, le vigliaccherie, i tradimenti e i sogni calpestati, Díaz fornisce il suo maggior contributo: fare in modo che questa critica superi la barriera del contingente per convertirsi in un’amara riflessione sull’essere umano. In questo processo, il linguaggio è l’unica arma che l’autore vuole e possiede, con la quale mette in discussione il nostro mondo e come lo osserviamo, lo comprendiamo, lo “fraintendiamo”, l’assurdità della comunicazione moderna, fondata sul sospetto degli altri, sull’eufemismo, la menzogna e, in pratica, sull’incomunicabilità.
Marco Antonio de la Parra
Qualcosa di simile accade con Marco Antonio de la Parra, già citato a proposito di Lo crudo, lo cocido, lo podrido in quanto esempio di testo sovversivo scritto sotto il regime. In opere come Infieles (Infedeli), La vida privada (La vita privata) o La puta madre (La fottuta madre), anche de la Parra ricorre al gioco dialettico e all’introduzione di personaggi frustrati e impossibilitati a comunicare che assistono al crollo dei loro sogni di gioventù e dei loro progetti per il futuro. Con La secreta obscenidad de cada día (La segreta oscenità quotidiana), il drammaturgo cileno si cimenta con la demistificazione di due grandi figure della nostra epoca: Sigmund Freud e Karl Marx sono due esibizionisti che si incontrano mentre aspettano alla porta di un collegio femminile. Il dialogo tra i due, impregnato di un umorismo sottile e carico di riferimenti culturali e storici, è un vivido esempio dello zelo revisionista che, rispetto ai fondamenti della cultura attuale, caratterizza buona parte del teatro cileno di questi ultimi anni. Il crollo di due grandi miti del XX secolo determina anche la decostruzione di tutto un discorso sociale, storico e razionale, nel quale trovavano legittimità buona parte delle certezze dietro le quali l’uomo moderno si era asserragliato. Con il suo teatro, de la Parra dà vita all’approccio di Lyotard sulla modernità:
La mia tesi è che il progetto moderno (della realizzazione dell’universalità) non è stato abbandonato o dimenticato, ma distrutto, liquidato! Ci sono molte forme di distruzione, e molti nomi servono a simboleggiarle: Auschwitz può essere preso come nome paradigmatico della non realizzazione della modernità. Tutto ciò che è razionale è reale, ma non tutto ciò che è reale è razionale: Auschwitz è reale, ma non razionale[13].
Così, i nuovi drammaturghi cileni sono immersi nella ricerca di nuovi linguaggi – nel loro caso scenici, linguistici – che contribuiscano a creare un’altra immagine della società, qualcosa che rifletta una realtà “reale”, in accordo con il passato e il presente del paese e che serva a schivare i periodi passati sotto silenzio così come quelli elaborati da schemi globali provenienti dall’Occidente che non rispondono alle circostanze particolari del paese. Stravolgere le illusioni in favore di un’analisi senza tabù della loro realtà è il principale progetto che oggi impegna gli intellettuali cileni. Come realizzarlo? Con le armi che ognuno padroneggia meglio, nel caso del teatro, un rinnovamento della scena cerca risposte ad anni di domande, sulla falsariga di quanto Sábato raccomandava ad ogni scrittore:
Non c’è altro modo di raggiungere l’eternità se non addentrandosi nell’istante, e non c’è altro modo di raggiungere l’universalità se non attraverso quello che ci circonda: il qui e ora. Il compito dello scrittore sarebbe quello di intravvedere i valori eterni coinvolti nel dramma sociale e politico del suo tempo e luogo[14].
Note:
[1] Karl Kohut, “Generaciones y semblanzas en la literatura chilena actual”, en Morales Saravia, José, y Kohut, Karl (eds.), Literatura chilena hoy. La difícil transición, Madrid, Iberoamericana, 2002, págs. 9-34 (29).
[2] Mª de la Luz Hurtado, “La escritura dramática vs. la escena en el teatro chileno de fin de siglo”, en Morales Saravia, José, y Kohut, Karl (eds.), ob. cit., págs. 279-295 (281).
[3] Julio Cortázar, Literatura de la revolución, revolución de la literatura, México, Siglo XXI, 1981, págs. 53-54.
[4] Ibídem, pág. 57.
[5] Ana Mª Foxley, “Inquietud y vitalidad en el teatro chileno”, Conjunto, 1985, núm. 64, págs. 8-15 (13).
[6] Ibídem, pág. 14.
[7] Fernando del Toro, “El teatro en Chile: ruptura y renovación”, Conjunto, 1986, núm. 70, págs. 23-32.
[8] Fernando del Toro, art. cit., pág. 30.
[9] Questo argomento è da me approfondito in “Los desposeídos en el teatro de Egon Wolff: Otro tipo de violencia sobre las tablas”, en Matías Barchino (coord.), Territorios de La Mancha. Versiones y subversiones cervantinas en la literatura hispanoamericana, Actas del VI Congreso Internacional de la Asociación Española de Estudios Literarios Hispanoamericanos, Cuenca, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 2007, págs. 803-808.
[10] All’interno di questa tematica, che coincide a sua volta con la fase di “presa di coscienza”, si inserisce anche Topografía de un desnudo, 1967.
[11] Alfonso de Toro, “Cambio de paradigma: El nuevo teatro latinoamericano o la constitución de la postmodernidad espectacular”, en Iberoamericana, Madrid, 43/44, año 15, 2-3, 1991, págs. 70-92 (70-71).
[12] Jorge Díaz, El velero en la botella. El cepillo de dientes, Chile, Universitaria, 1994, págs. 79-80.
[13] Jean François Lyotard, La posmodernidad, Barcelona, Gedisa, 1994, pág. 91.
[14] Ernesto Sábato, El escritor y sus fantasmas, Barcelona, Seix Barral, 1979, pág. 81.