La camera di sangue: Angela Carter e la dissacrazione del patriarcato
Translation by Annamaria Martinolli
Il presente saggio è stato pubblicato a novembre 2014 sul sito web della Biblioteca Fragmentada con il titolo La Cámara Sangrienta: Angela Carter y la Desacralización del Patriarcado. L’autore è Andrés Ibarra Cordero. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Nell’ambito dell’agenda poststrutturalista attuale, sia la critica letteraria che femminista hanno evidenziato le qualità “discorsive” del genere all’interno di una riflessione sui modi tradizionalisti di concepirlo con i suoi limiti culturali, geografici e politici. Tutto sembra indicare che l’accademia ha vinto la sua battaglia contro Walt Disney e i mezzi di intrattenimento che hanno imposto una fantasia collettiva di virtù e mansuetudine femminile. Teresa de Lauretis, assieme ad altre teoriche del femminismo, sta consolidando ulteriormente l’idea che il genere sia una rappresentazione; il prodotto di diverse tecnologie sociali, discorsi istituzionali, epistemologie e pratiche culturali. Sia Teresa de Lauretis che altre esperte del settore operano una distinzione tra qualità discorsive, riproduttive e performative del genere e considerano il binomio femminile/maschile come qualcosa di insito in forma preliminare nella matrice prescrittiva di una etero norma patriarcale e della sua rispettiva deviazione femminile (Lauretis: 1987).
Fin dagli albori della critica letteraria femminista, molte teoriche intrapresero ricerche sulla posizione periferica occupata dalla donna nei testi e nei discorsi che costituiscono il canone letterario. Inizialmente, la critica si focalizzò soprattutto sulla rappresentazione della donna nei testi canonici scritti da autori maschi. La politica del sesso (1971) di Kate Millett è probabilmente la pietra fondante di questa branca del femminismo. Nella sua dettagliata analisi, l’autrice studia il canone letterario maschile e osserva il modo in cui l’immagine della donna è sottomessa all’autorità patriarcale. Anni dopo, l’interesse della critica femminista si spostò sullo studio dei testi redatti da scrittrici, nel tentativo di portare alla luce una “nuova tradizione” e un’estetica letteraria del femminismo. All’interno di quella che Elaine Showalter definisce “ginocritica” – un doppio discorso che incarna sia il femminile che la cultura dominante – l’oggetto di analisi diventa il testo in quanto esperienza femminile. In La pazza dell’attico (1979), Sandra Gilbert e Susan Gubar avanzano un’ipotesi femminista sull’influenza e l’ansia nelle scrittrici di lingua inglese del XIX secolo. Questo studio approfondito fu il primo a proporre una serie di modelli per comprendere le dinamiche adottate dalla scrittura femminista nei confronti dell’autorità e della coercizione maschile. Mentre molte donne erano impegnate nel tentativo di riscattare un certo tipo di tradizione femminista, la scrittrice inglese Angela Carter stava combattendo su un altro fronte per distruggerne una più antica. Questa autrice oltre ad essere una novellista arguta, artefice di una narrativa radicale, trovò il coraggio di dare una svolta drammatica a un genere letterario da molti percepito come patriarcale: le fiabe.
La sua scrittura si inserisce in un rinnovato contesto teorico in cui la critica femminista, impegnata a mettere in risalto i molteplici valori patriarcali presenti nella nostra cultura, induce molte scrittrici a reinterpretare e riscrivere racconti e novelle tradizionali. Molti furono i teorici che sostennero l’importanza di analizzare un vasto repertorio di racconti popolari dal punto di vista del femminismo, e questo comportò la revisione di quei paradigmi che affliggono un certo tipo di aspettativa romantica e la dissoluzione di quelle ambiguità psichiche che contraddistinguono il genere (Rowe, 1993). Fin dall’infanzia, Angela Carter si immerse completamente nelle leggende celtiche, nei romanzi medievali e nel folklore popolare delle isole britanniche. I racconti della serie La camera di sangue (The Bloody Chamber, 1979) sono diventati – meritatamente – un testo consolidato all’interno della letteratura inglese. In questa raccolta ricca di fascino, Angela Carter riscrive alcune fiabe tradizionali allo scopo di dissacrare vecchie imposizioni culturali che hanno finito per sclerotizzare gli stereotipi femminili.
L’incanto generato dall’immaginario di Angela Carter deriva, almeno in parte, dalla complessità e inclassificabilità della sua narrativa. La critica Lorna Sage, ad esempio, ritiene che il suo stile sia laborioso perché associa alcune idee tipiche del marxismo a un “femminismo radicale” (1994, p. 3). Altri critici, come Linden Peach, asseriscono invece che Angela Carter scriva da una “terza dimensione” che va al di là del pensiero binario e che implica un’alterazione dei nostri punti di riferimento per quanto riguarda l’identità, il sesso e il genere (Peach, 1998. p. 114). Nel complesso, i critici hanno notato nell’autrice un’intricata elaborazione di una topografia femminista con tinte che spaziano dal surrealismo al fantastico. Seguendo i postulati delle femministe francesi, è possibile osservare, in Angela Carter, un’interessante disarticolazione dei modelli psicanalitici di differenziazione sessuale nel rapporto tra il soggetto/narratore e questo “altro” femminile. Come molti hanno rilevato, l’autrice inglese presta particolare attenzione alla psicanalisi per quanto riguarda l’ordine socio-simbolico da cui dipende il linguaggio, il suo significato e l’autorità. Per Lacan, il fallo in quanto significante della “legge del padre” garantisce ragione e autorità. Possederlo è simbolo di possesso del discorso imperante, di generazione di significato e di controllo dell’“altro”, che sfugge al simbolico (Gallop, 1988). Queste tematiche vengono affrontate dalla stessa Angela Carter che afferma: “Essere oggetto del desiderio significa essere definiti in termini passivi, e morire in termini passivi è come essere mutilati” (Carter, p. 76).
La riscrittura dell’autrice si pone come obiettivo lo stravolgimento dei canoni e delle regole comportamentali dettati dalla società patriarcale. Per raggiungere questo scopo, Angela Carter ricorre allo stratagemma letterario della parodia, la quale dato il suo carattere sovversivo permette di mantenere inalterato il passato ma allo stesso tempo di ricontestualizzarlo, demolendo il soggetto autoritario, e reinserirlo ideologicamente rinnovato all’interno di un nuovo sistema culturale. Ne consegue che la decostruzione dissacrante e parodistica delle fiabe rappresenta per questa autrice “uno dei principali meccanismi culturali per inculcare ruoli e comportamenti” (Rowe, p. 210). La produzione artistica di Angela Carter si traduce in un’attenta revisione che offre “un altro tipo di narrativa, un altro linguaggio e una nuova immagine della donna” (Billi, 1993, p. 213). L’autrice modifica elementi tradizionali scrivendo racconti basati soprattutto sullo sviluppo psicologico e sessuale della protagonista, che da donna oggetto si converte in soggetto di rappresentazione, ovvero diventa protagonista della propria sessualità. Angela Carter credeva fermamente che le fiabe giocassero un ruolo importante nello sviluppo infantile, anche se il loro contenuto provoca effetti diversi sui bambini e sulle bambine poiché ne influenza la coscienza creando “dipendenza e favorendo la formazione di una personalità insicura e dissociata, oltre a stabilire dei modelli femminili completamente sviliti e quasi del tutto privi di identità e autonomia” (Billi, p. 217).
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, La camera di sangue[1], la prima differenza che si nota rispetto alle fiabe tradizionali è che l’eroina parla in prima persona, e diventa quindi la narratrice-protagonista della sua esperienza. Il classico C’era una volta scompare del tutto, come pure la figura autoritaria del protagonista maschile. Nel racconto di Angela Carter, l’uomo è una figura portatrice di morte e non di salvezza, e poiché la protagonista è anche la voce narrante, e quindi commenta e dirige la storia, l’“io” femminile costruisce il testo come esperienza personale:
Ricordo come passai quella notte nel vagone letto sveglia, incantata nel piacere tenero che l’eccitazione mi dava, la guancia in fiamme contro il lino immacolato del cuscino, il cuore che mi batteva forte, all’unisono con i massicci pistoni che con violenza spingevano senza sosta il treno: nella notte quel treno mi portava lontano da Parigi, lontano dall’infanzia, lontano dalla quiete bianca e raccolta dell’appartamento di mia madre, verso i territori imperscrutabili del matrimonio.
(Angela Carter, La camera di sangue, traduzione di Barbara Lanati, Feltrinelli, Milano 1984, p. 7)
È importante sottolineare lo speciale legame tra donne che l’autrice esprime nella sua narrativa. Fin dalle prime righe del racconto è evidente la complicità che unisce la protagonista alla madre; un rapporto diverso dall’usuale conflitto descritto in molte fiabe: “La cooperazione tra donne viene spesso proposta in molte riscritture come alternativa all’archetipo della rivalità femminile” (Irigaray, p. 103). Il fatto di rappresentare un rapporto positivo e di affetto tra madre e figlia e, più in generale, tra donne, dimostra la volontà dell’autrice di denunciare come questo tipo di relazione sia stato trascurato e rifiutato dal pensiero patriarcale che ha sempre cercato di dipingere le donne in una condizione di reciproca e svantaggiosa rivalità. Il riferimento al profondo legame esistente tra la protagonista e la madre vuole quindi essere un mezzo per trasformare e sovvertire la tradizione dissacrando la repressione culturale che abitualmente contraddistingue i due personaggi.
Anche il matrimonio non viene rappresentato come una semplice cerimonia individuale bensì come un rito, una performance collettiva che celebra l’esaltazione della donna nel suo assumere il ruolo domestico di sposa e madre. La diffidenza nella sessualità femminile è uno dei luoghi comuni presenti nella nostra cultura che vaticina tutti i mali possibili nel caso in cui quest’ultima venga liberamente gestita dalle donne, visto che “l’ordine sociale pensa che la sessualità sia un pericolo, oltre che causa di disordini, perché può portare, ad esempio, alla rottura del matrimonio” (Von Franz, 1998, p. 37). Di conseguenza, la mancanza di una corretta descrizione della sessualità femminile ha portato a ignorarne la corporalità. Come osserva Luce Irigaray, nelle società occidentali la sessualità femminile è sempre stata descritta come imperfetta e obbligatoriamente relazionata a quella maschile – unico sistema mediante il quale può esprimersi in tutta la sua interezza – per cui non ha mai avuto una sua specificità (1985, p. 56).
Ne La camera di sangue, il matrimonio è la ragione che spinge la protagonista ad abbandonare la famiglia, il focolare e i suoi progetti per il futuro. All’inizio non è chiaro se l’eroina acquisisca una certa esperienza con il passare del tempo o se sia consapevole dei sacrifici che l’aspettano. Dopo il matrimonio, la giovane definisce la sua condizione un “esilio”, ammettendo di aver immaginato fin da principio quale sarebbe stato il suo destino di donna maritata. In questo modo, Angela Carter inverte il messaggio che le fiabe tradizionali trasmettono abitualmente alle giovani, e cioè “quell’allarmante profezia secondo la quale il matrimonio è un incantesimo che le proteggerà dalla spiacevole realtà collocata fuori dalle mura domestiche garantendo loro la felicità eterna” (Rowe, 220). Dopo aver contratto matrimonio con il misterioso Marchese, la protagonista, con amaro dispiacere, ragiona in questo modo: “Il matrimonio, ovverosia l’esilio; lo sentii, lo sapevo – da quel momento in avanti sarei stata sola per sempre”. (Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 14)
Esiste in Angela Carter un certo desiderio di descrivere l’attenta costruzione dell’identità femminile: un processo di acculturamento che trasforma la bambina in una donna ben istruita sul sistema patriarcale. È questa la ragione per la quale tutti i racconti prendono come punto di partenza la fase critica di questo indottrinamento: “il risveglio sessuale, la scoperta del proprio desiderio, lo sviluppo della dinamica soggetto/oggetto” (García Domínguez, 2004, p. 11). L’autrice manifesta l’urgenza di porre fine alla rappresentazione della donna secondo i canoni dell’immaginario maschile; condizione che si riflette in modo evidente in molte eroine che rappresentano poli opposti, perché o sono malvagie e meritano un castigo esemplare, o sono docili e sottomesse e interiorizzano il ruolo stabilito dalla tradizione patriarcale che le vuole all’interno dello spazio domestico.
Angela Carter converte i suoi racconti non solo in armi discorsive ma anche in pratiche di disobbedienza sessuale e civile che ci fanno capire come perseverare nella sottomissione sociale quando si è dotati di un corpo sessuato sia una scelta sbagliata. La narrativa dell’autrice non riflette solo le gerarchie del genere, ma include anche quelle di diversi modelli di decostruzione maschile che assumono diversi formati femminili. L’immagine archetipica della giovane eroina, associata all’innocenza e alla purezza, negli scritti di Angela Carter manifesta spesso inclinazioni sessuali deviate o risulta semplicemente essere – con grande stupore del lettore – abbastanza disinibita. In La camera di sangue, l’autrice ammette di aver utilizzato il “contenuto implicito tipico delle fiabe” e dichiara che è proprio questo a essere caratterizzato da “una forte violenza sessuale” (Sheets, 1998, p. 96). Questa insolita alterazione della deviazione verso il femminile è una strategia per distruggere quelle nozioni essenzialiste del genere e per ironizzare su queste costruzioni discorsive.
La narrativa di Angela Carter non fu solo una risposta all’oggettivazione della donna in quanto oggetto sessuale maschile ma si pose anche l’obiettivo di considerare le sessualità maschile come distinta dalla sua supposta funzione riproduttiva. Le eroine dell’autrice sono consapevoli del proprio risveglio sessuale e pretendono di ottenere lo stesso tipo di piacere che gli uomini hanno ottenuto per generazioni. In La camera di sangue, l’erotismo è una caratteristica ricorrente in tutto il racconto e lo si nota, ad esempio, nel modo in cui l’eroina descrive l’impazienza con cui attende di vivere la sua prima esperienza sessuale: “Come passerò quelle lunghe ore illuminate dal mare, prima che mio marito mi porti a letto?… Non c’era nulla lì che potesse trattenervi una ragazza di diciassette anni che era in attesa del suo primo amplesso” (Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 21-22). L’esibizione della sessualità della protagonista è una delle chiavi di lettura della rielaborazione di Angela Carter ed è direttamente relazionata con l’utilizzo dell’io narrante e con l’unione tra Eros e Logos, che presuppone la conquista di uno spazio estraneo occupato, secondo tradizione, dal soggetto maschile.
L’autrice inglese fu anche oggetto di polemiche, nell’ambito della critica femminista, a causa del suo affermare che il Marchese de Sade “mette la pornografia al servizio della donna o, se non altro, la riveste di un’ideologia non contraria alla donna” (Carter, 1979, p. 37). Il perverso Marchese de La camera di sangue – che si ispira proprio alla figura del Marchese de Sade – rivela le sue reali intenzioni durante l’atto sessuale in cui mette in risalto la sua vera personalità di “pornografo e vizioso” e di perverso libertino che si è scelto una moglie giovane e innocente come vittima. In questo modo, l’atto sessuale, simile a un atto di violenza, si consuma in un clima di evidente sadismo e viene esaltato dalla moltitudine di specchi che decorano la stanza:
Mi fece indossare il girocollo, il cimelio di famiglia appartenuto a una donna che era riuscita a evitare la lama. Le dita tremanti, lo allacciai stretto intorno al collo. Era di ghiaccio e mi diede i brividi. Lui mi attorcigliò i capelli e li rialzò dalle spalle, così da baciare meglio l’incavo lanuginoso, dietro le orecchie; quei baci mi fecero tremare. E baciò anche i rubini fiammeggianti. Li baciò prima di baciare la mia bocca. In estasi intonò: “Di ciò che indossava, soltanto i gioielli tintinnanti conserva su di sé”. Una dozzina di mariti impalò una dozzina di spose, mentre, tra miagolii, i gabbiani, fuori, volavano su invisibili trapezi nel cielo deserto.
(Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 23)
Oltre a simboleggiare l’inclinazione narcisistica del perverso marito, la presenza degli specchi evoca la trasformazione del soggetto così come definita da Lacan, quindi come una fase necessaria all’identificazione dell’individuo (Palmer, 1971, p. 21). L’immagine del corpo femminile, che gli specchi riflettono nell’istante dell’atto sessuale, rappresenta la presa di coscienza da parte dell’eroina della sua corporalità e la rivelazione di un nuovo soggetto sessuato la cui peculiarità è la continua ricerca, e il perenne rinnovamento, della propria identità.
Quanto suggerito da Angela Carter nei suoi racconti ha sempre un significato metaforico. Le strategie letterarie che in essi si celano lasciano intuire che l’autoritarismo e le perversioni sessuali non sono un’esclusività maschile. Il finale di La camera di sangue, in questo senso, è rivelatore. Il perverso Marchese imprime un marchio sulla fronte dell’eroina/vittima e lei si sente sollevata dal fatto che il suo amante sia cieco e quindi non possa vederla: “Non che abbia paura che ne provi disgusto, dal momento che so che in cuore suo lui mi vede come sono, ma perché così me ne risparmia la vergogna” (Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 58). Questo comportamento ci spinge a chiederci di che cosa si vergogni. Forse della sua stessa sessualità e della sua complicità con il Marchese? La presunta innocenza e passività femminile viene qui messa in dubbio anche perché, di fronte a una figura come quella del Marchese, l’eroina confessa di non avere paura di lui ma “di me stessa. Mi sembrava che il suo sguardo spento mi avesse fatto nascere un’altra volta, sotto spoglie che mi erano estranee” (Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 27). Da questo si deduce che anche se l’eroina fugge dal Marchese, ella vede riflessi in lui i suoi stessi desideri sessuali o il suo indottrinamento al patriarcato.
Quando La camera di sangue uscì nelle librerie, Angela Carter fu oggetto di numerosi attacchi, da ambiti sociali diversi, con cui la si accusava di essere un’autrice per la quale “nulla è sacro” – e questo sarà ironicamente il titolo di una raccolta di saggi che pubblicherà in seguito – . L’interesse dell’autrice per la figura del Marchese de Sade, poi, divenne oggetto di critica anche da parte delle femministe che ritenevano che la sua narrativa perpetuasse “immagini patriarcali oppressive” (García Domínguez, p.1). Ciononostante, la critica attuale è unanime nel riconoscere i meriti di Angela Carter per la sua capacità di analizzare le immagini oppressive sottolineandone l’androcentrismo e offrendo, a partire da esse, delle alternative liberatorie.
L’autrice inglese fu la prima a realizzare un progetto di scrittura in grado di offrire al lettore nuove forme di soggettività capaci di liberarlo dalle strutture totalizzanti dell’economia patriarcale rifiutandone le forme individualizzanti.
I racconti de La camera di sangue sono pervasi dalla convinzione che la natura umana, la sessualità e il genere non sono immutabili. Molti dei testi presenti nel volume, infatti, introducono personaggi soggetti a metamorfosi. L’eroina del racconto omonimo è una vergine destinata a immolarsi che però, nel corso della storia, cambia atteggiamento e sfugge al suo destino. Dopo aver disobbedito al marito e aver scoperto gli atroci omicidi di cui si è reso responsabile, è il pensiero della madre, e della sua forza, a spingere l’eroina a non avere paura e a convincerla a entrare nella camera di sangue: “Il coraggio di mia madre mi diede la forza di non desistere, di penetrare quel luogo orrendo in un’estasi che ghiacciava il sangue e mi spingeva a conoscere il peggio” (Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 39). Dopo aver lasciato la stanza proibita, la protagonista si rende conto di aver agito proprio come suo marito si aspettava e si tormenta per non aver capito prima il piano concepito dalla mente diabolica dell’uomo:
Sapevo di essermi comportata esattamente come aveva desiderato lui; non mi aveva forse comperata perché così facessi? Si era preso gioco di me spingendomi, attraverso il mio stesso tradimento, in quel buio senza fine di cui, in sua assenza, ero stata costretta a cercare l’origine, ed ora che avevo incontrato quella sua realtà segretamente sorvegliata che risaliva alla luce solo in presenza delle atrocità commesse, dovevo pagare il prezzo di ciò che avevo appena appreso. Il segreto della scatola di Pandora; ma era stato proprio lui a darmi la scatola, perché sapeva che avrei dovuto scoprirne il segreto.
(Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 49)
Angela Carter sovverte l’ovvia esaltazione dei simboli sessuali maschili, come la chiave o la spada. Nella sua versione, la prima è uno strumento di incarceramento e la seconda è un’arma letale che porta distruzione e morte, visto che le mogli precedenti del Marchese sono state decapitate.
La modifica più evidente, rispetto alla fiaba di Perrault, è il finale del racconto, poiché “il ruolo dell’eroe liberatore è riservato a una donna che, nella sua figura di madre, testimonia l’ininterrotta linea di solidarietà e il legame femminile” (Billi, p. 219). L’eroina non verrà salvata dai fratelli, come previsto nella fiaba originale, ma dalla sua stessa madre che arriva nel momento giusto e uccide il Marchese, montando un cavallo preso a nolo – il che rappresenta un’ulteriore svolta ironica e parodistica – :
Andai alla finestra e buttai un ultimo disperato sguardo fuori e come un miracolo vidi un cavallo e un cavaliere che a velocità vertiginosa galoppavano lungo la strada rialzata anche se ormai le onde si rifrangevano all’altezza dei garretti del cavallo. Una cavallerizza, la gonna nera rimboccata a vita, così che potesse cavalcare sicura e veloce, un’amazzone pazza e stupenda, in gramaglie.
(Angela Carter, Feltrinelli, Milano 1984, p. 54)
Alla fine, la protagonista si sposerà con il cieco accordatore di pianoforti, il misterioso personaggio che accordava lo strumento da lei suonato e a cui aveva confessato l’esistenza della camera segreta. Questa figura maschile, che sostituirà il marito assassino, non compare nelle versioni tradizionali del racconto e suggerisce una nuova soggettività maschile più legata alla passività, che contrasta nettamente con la figura del Marchese. Dietro un simile epilogo, che potrebbe sembrare un modo semplicistico di tornare al tradizionale schema con cui si concludono le fiabe classiche, “e vissero felici e contenti”, si nasconde la ricerca di un significato più metaforico: l’uomo cieco non può vedere l’eroina, né dominarla né controllarla, quindi il classico squilibrio di potere che caratterizza il rapporto uomo/donna subisce un rovesciamento.
La narrativa di Angela Carter è indubbiamente un progetto di emancipazione erotica che demolisce gerarchie, pregiudizi e l’ipocrisia che da sempre contraddistingue il genere. La raccolta di racconti de La camera di sangue presenta una serie di fantasie erotiche, sessualità emancipate e pratiche femministe. In questo modo l’autrice riporta in auge le fiabe e le riveste di una forte critica discorsiva creando per la prima volta una narrativa carnevalesca dove la fluidità del genere consente l’utilizzo di trucchi, metamorfosi e performance. La bibliografia di Angela Carter non solo decostruisce gli stereotipi del genere ma smonta le relazioni di potere e dominio tipiche del sistema patriarcale. Questa scrittrice inglese fu tra le prime ad analizzare molte delle preoccupazioni che, ancora oggi, ci coinvolgono: il timore di provare un piacere fuori dalla norma; la lotta contro la censura sessuale e la performance come strumento emancipatore e discorsivo intorno al genere. In pratica, la narrativa di Angela Carter introduce una traiettoria critica all’interno del femminismo che oscilla tra una soggettività dell’esperienza femminile e l’ammissione poststrutturalista che l’identità e la sessualità sono discorsive, nonché socialmente e culturalmente determinate, e concependo un progetto letterario che viaggia verso l’emancipazione femminile marcata da un’eterogeneità di corpi e identità sessuali. L’autrice ricorda in questo modo al lettore che i racconti sono mondani, che appartengono all’ambiente sociale, alla vita umana e ai periodi storici in cui si collocano e vengono di conseguenza interpretati.
Informazioni aggiuntive
Andrés Ibarra Cordero è docente di lingua e letteratura inglese presso l’Universidad de las Americas in Cile. Dopo essersi laureato in letteratura inglese presso la Pontificia Universidad Católica de Chile, ha conseguito una laurea specialistica in estetica e filosofia presso la stessa università e un dottorato di ricerca in comparatistica presso il King’s College di Londra. Note: [1] Il racconto La camera di sangue è una riscrittura della celebre fiaba Barbablù di Charles Perrault. Bibliografia di Angela Carter: Billi, M. (1993). Il testo riflesso: la parodia nel romanzo inglese. Napoli: Liguori. Carter, Angela. (1979). La Cámara Sangrienta y otros cuentos. Barcelona: Minotauro. Carter, Angela. (1979). The Sadeian Woman: and the ideology of pornography. New York: Penguin. Carter, Angela. (1998). “Notes from the Front Line”. In Lindsay Tucker (Ed.), Critical Essays on Angela Carter. New York: G.K. Hall. De Lauretis, Teresa. (1987). Technologies of Gender: essays on theory, film, and fiction. Bloomington: Indiana University Press. García Domínguez, A. M. (2004). “Un experimento en imágenes: ‘El rey Elfo’ de Angela Carter” El Cuento en Red: 1-11. http://www.Cuentoenred.org/cer/numeros/no-10/pdfs/er-10-5-garcia.pdf. Gallop, Jane. (1988). Thinking Through the Body. New York: Columbia University Press. Gilbert M., Sandra and Susan Gubar. (1979). The Madwoman in the Attic: the woman writer and the nineteenth-century literary imagination. New Have: Yale University Press. Irigaray, Luce. (1985). This Sex which is not one, traducción de Gillian C. Gill. Ithaca: Cornell University Press. Katsavos, A. (1994). “An Interview with Angela Carter” (pp. 11-17) en Review of Contemporary Fiction 14.3. Millet, Kate. (1977). Sexual Politics. London: Virago. Palmer, J. M. (1971). Jacques Lacan: lo simbólico y lo imaginario. Buenos Aires: Proteo. Peach, Linden. (1998). Angela Carter. New York: St Martin’s Press. Rowe, K.E. (1993). “Feminism and Fairy Tales” en Zipes, J., Don’t be on the prince: contemporary feminist fairy tales in North America and England. Aldershot: Scolar Press. Sage, Lorna. (1994). Angela Carter. London: Northcote House. Sheets, R.A. (1998). “Pornography, Fairy Tales, and Feminism: Anela Carter’s ‘The Bloody Chamber”, en Lindsey Tucker (Ed.), Critical Essays on Angela Carter (pp. 96-118). New York: G.K. Hall & Co. Von Franz, M. L. (1998). Il femminile nella fiaba. Torino: Bollati Boringhieri.